Nel 1985, Clint Eastwood torna al western, a livelli altissimi. In “Il cavaliere pallido” è un altro “straniero senza nome” (più bonario dei precedenti), di cui si sa solo che è (forse) un prete, che compare, come per incanto, in un villaggio di cercatori d’oro vessati da un industriale. Angelo vendicatore svelto a dare bastonate e letale pistolero, “Preacher” è il primo bel personaggio dell’Eastwood maturo, e “Il cavaliere pallido” è un western d’enorme successo in un decennio nel quale il genere sembrava confinato nell’oblio. Nel film recitano un attore televisivo, Michael Moriarty; Carrie Snodgress, ex fidanzata di Neil Young; e Richard Kiel, il gigantesco “Squalo” degli 007 con Roger Moore. Il cast tecnico raduna però i soliti eccelsi, fidati nomi della Malpaso Productions: Bruce Surtees alla fotografia, Joel Cox al montaggio e Lennie Niehaus alle musiche (spesso in collaborazione con Eastwood).
A 55 anni, con molti film da attore alle spalle e già parecchi da regista, alcuni dei quali più che buoni, è nata una stella: parte degli addetti ai lavori americani, e soprattutto quelli francesi, si rendono conto che Orson Welles (“Clint Eastwood è sottovalutato come capita alle ragazze belle e intelligenti”) aveva valide ragioni.
Il biennio 1985-’86 è tutto di trionfi. Avere riportato alla gloria, con un film bellissimo, un genere cinematografico considerato desueto, provoca il riconoscimento di Eastwood quale artista di vaglia. La Cinémathèque di Parigi gli aveva già tributato una retrospettiva: “Hommage a Clint Eastwood”, chiaro segno del fatto che nel paese dove il cinema è stato creato si sa riconoscere chi fa onore alla settima arte – con buona pace di alcuni critici statunitensi e italiani, che ancora non vedono in Eastwood nulla più d’un cultore della violenza (e non lo è). Eppure non serve molto acume per capire che “Gunny”, diretto e interpretato nel 1986, è l’esatto contrario di un’apologia del militarismo e della pretesa reaganiana d’imporre gli USA come “poliziotto del mondo”.
L’ispettore Callahan è violento, aggressivo e volgare; ma sembra una suora orsolina, al cospetto del sergente dei marines Tommy Highway: il protagonista di “Gunny” è un’autorità mondiale nell’arte dell’insulto, un gran picchiatore e un teppista senza freni. Veterano della guerra di Corea, addestra un plotone di reclute per il blitz a Grenada del 1983, una delle azioni più assurde della storia militare. “Gunny” (in originale “Heartbreak Ridge”, da una battaglia del conflitto coreano), sberleffo al militarismo americano, non fu apprezzato all’esercito, che deplorando la sceneggiatura e la caratterizzazione del sergente Highway non permise le riprese a Fort Bragg.
Il successo di “Gunny” coincide con la pagina più particolare dell’impegno politico di Eastwood: il biennio da sindaco del suo adorato paese, Carmel by the Sea. Nell’aprile 1986, forte non tanto della campagna elettorale (condotta a suon di cappellini e spille presto esauriti) quanto della sua notorietà, col 72,5% dei voti sconfisse il sindaco uscente, Charlotte Townsend (alla quale rese omaggio con delle piante da giardino). Creazione d’una biblioteca per bambini, ampliamento del parcheggio per i turisti e del lungomare pedonale, ordinanza contro l’abbandono di cani e salvaguardia dei ristoranti locali, con la negazione dello spazio richiesto da McDonald’s.
Episodio, questo, che lo renderà involontariamente protagonista d’una manifestazione a Roma: negli stessi mesi, il cantante Claudio Villa e lo stilista Valentino mobilitarono una manifestazione per chiedere che il comune non permettesse l’apertura di fast-food nell’Urbe, paventando il danno a favore dei ristoratori tradizionali; proprio Villa dal palco agitò un cartello con il poster di “Il cavaliere pallido” e la scritta “you should be our mayor” (“il nostro sindaco dovresti essere tu”).
Durante l’attività da sindaco, Eastwood restò attivo anche in quanto cineasta: prima che scadesse il mandato, aveva cominciato le riprese di “Bird”, premiatissima biografia del sassofonista Charlie “Bird” Parker (interpretato da Forest Whitaker) e tributo di Clint alla propria passione per il jazz.
Negli stessi mesi, affida all’amico Buddy Van Horn la conclusione del ciclo di “Dirty Harry”: “Scommessa con la morte” (“The Dead Pool”, 1988), anch’esso a “tema musicale”, dato che Lalo Schifrin, valente compositore di temi per film polizieschi, deve lasciare spazio alla scadente band dei Guns’n’Roses, i cui componenti hanno delle comparsate. Si segnalano il primo ruolo importante per Jim Carrey (già noto in tv come imitatore di Clint), nei panni d’un cantante rock idiota, e l’approdo a Hollywood dell’irlandese Liam Neeson, in quelli d’un regista horror non più brillante del succitato. L’inseguimento della macchinina esplosiva ha fatto scuola. Epilogo della creatività omicida di Callahan (cui la Smith&Wesson non basta mai): a mani nude in “Una 44 Magnum”, con un getto d’acqua e con un bazooka in “Cielo di piombo”, un infarto procurato in “Coraggio fatti ammazzare” e infine, un arpione in “Scommessa con la morte”.
Ancora diretto da Van Horn per “Pink Cadillac”, commedia picaresca assieme a una brava cantante e comica, Bernadette Peters. Ma Tommy Nowak, cacciatore di taglie con la mania dei travestimenti, non conquista il pubblico.
Nel 1990 Eastwood torna a dividersi tra regia e recitazione con “Cacciatore bianco, cuore nero”, ma nemmeno questo tributo per nulla agiografico a John Huston ottiene, ingiustamente, molta attenzione. Wilson resta uno dei personaggi più complessi di Eastwood, e il suo cast tecnico (stavolta alla fotografia c’è Jack N. Green e al montaggio Joel Cox) è al meglio. Nello stesso anno è ancora regista e interprete per il suo film più stupido: “La recluta” è un poliziesco con toni da commedia sulla scia dell’enorme successo dei “Beverly Hills Cop” interpretati da Eddie Murphy: ma quelli facevano ridere, Charlie Sheen ci riuscirà l’anno dopo con “Hot Shots”. Grande scandalo per la scena in cui Pulowski, il poliziotto con la mania dei motori interpretato da Eastwood, è stuprato dalla cattiva; e non ci si capacita del fatto che due attori ispanici interpretino due cattivi tedeschi – ma il compianto Raul Julia è forse il miglior “villain” con cui Clint si sia confrontato.
Clint Eastwood adesso ha 60 anni, fa l’attore da tre decenni e mezzo e il regista da due. È stato il pupillo di due registi importantissimi (Sergio Leone e Don Siegel), e ha lanciato la carriera di altri due (John Milius e Michael Cimino); è stato co-protagonista d’una pietra miliare del western (“Il buono, il brutto e il cattivo”) e protagonista di una del poliziesco (“Dirty Harry”). Negli anni ’70 ha giocato con i suoi due ruoli più celebri (il cowboy solitario e innominato, il poliziotto violento e un po’ psicotico), si è avventurato nel thriller e nel dramma sentimentale (“Brivido nella notte” e “Breezy”), ha esplorato il cinema d’azione e quello western fino a ridurli in parodia (“L’uomo nel mirino” e “Bronco Billy”); alla metà degli anni ’80, ha tratto due film bellissimi da due generi considerati ormai estinti – western, “Il cavaliere pallido” e bellico, “Gunny”. Sono soltanto le premesse della sua carriera artistica.
Wyoming (nella finzione, le riprese sono state effettuate in Canada), durante il crepuscolo dell’epopea dei cowboy: un gruppo di mandriani va in un bordello, ma uno di loro sfregia una prostituta, rea d’averne deriso le doti virili. Lo sceriffo “Little Bill” Daggett (Gene Hackman) propone che i mandriani risarciscano la ruffiana, ma questa, assieme alle ragazze del bordello, raduna una taglia da offrirsi a chi uccida lo sfregiatore. La notizia attira non solo un mercenario vanaglorioso, Bob l’Inglese (Richard Harris), accompagnato dal suo biografo (Saul Rubinek): arrivano anche gli assai più temibili Ned Logan (Morgan Freeman) e William Munny (Clint Eastwood), famigerato assassino (“ho ucciso donne e bambini, in tempi lontani ho ucciso creature che camminano e creature che strisciano”) redento dopo l’incontro con una ragazza che lo ha lasciato vedovo e con due bambini, ad allevare maiali senza esserne capace. Lo scontro fra la volontà di vendetta delle prostitute e quella di imporre la tregua da parte di Daggett porterà a una spirale di violenza.
Da un soggetto di David Webb Peoples, opzionato da Francis Ford Coppola e rimasto nei cassetti della Warner Bros. per quasi vent’anni, nel 1992 Eastwood trae “Gli Spietati” (in originale “Unforgiven”, “i non perdonati”), meraviglia delle meraviglie del Vecchio West, vetta irraggiungibile del “western revisionista”. Non è solo la vicenda di due uomini, lo sceriffo Daggett del premiatissimo Hackman e il pistolero Munny di Clint, sottratti loro malgrado da una pace tanto desiderata e costretti a tornare violentissimi. È il tramonto, che più cupo non può essere, di tutta un’epopea, come testimonia la caduta verticale del millantatore Bob, umiliato dallo sceriffo proprio di fronte al cronista che dovrebbe narrarne la gloria. Dramma del destino cinico e baro, “Gli Spietati” traspone la tradizione della tragedia greca nel western crepuscolare alla John Ford, col quale Eastwood ormai si confronta alla pari. E quando, ridotto ormai a un fantasma, Munny si dilegua fra le tenebre e sotto la pioggia battente, lanciando minacce al vento, fa davvero paura.
Non ce n’è più per nessuno, i quattro Oscar su nove nomination, i due Golden Globe su quattro candidature e i 160 milioni di dollari incassati a fronte dei 14 spesi non rendono l’idea di cosa sia successo. Clint (che in quanto produttore e regista, riceve le sue prime due statuette: miglior film e miglior regia), che come sempre più spesso accade partecipa anche alla colonna sonora, è ormai migliorato in quanto attore – ormai abilissimo nello sfruttare i suoi tratti distintivi: gli occhi raggelanti seppur appena visibili, la parlata sibilante a denti stretti, l’andatura dinoccolata e lenta, i gesti solenni delle mani ossute, il volto rinsecchito dal sole californiano – ed espone con crudezza e senza alcun patetismo la miseria d’un mito fondativo degli Stati Uniti d’America: le sue logiche ottuse, la facilità dell’odio, la sua spietatezza.
Preceduto di due anni da “Balla coi Lupi”, “Gli Spietati” è il bellissimo canto del cigno d’un genere (“L’ultimo dei Mohicani”, uscito nello stesso anno, è ambientato nel secolo precedente l’epopea della Frontiera) che non tornerà mai più su questi livelli.
I detrattori (i pochi rimasti a strillare per posizioni politiche perennemente fraintese, a rinfacciargli un appoggio a Reagan di fatto espresso con tantissime riserve, o ad accusarlo d’un culto della violenza che, come si può notare guardando anche un solo suo film da regista, gli è estraneo) cominciano a dileguarsi: nemmeno il più malevolo e pignolo può trovare un minimo difetto a un’opera d’arte della grandezza di “Gli Spietati”. Il bravo cineasta degli anni ’70 e ’80 è diventato un artista immenso.
Proprio col regista e protagonista di “Balla coi Lupi”, Kevin Costner, si trova a duettare (e duellare) l’anno dopo: nel ’93 Eastwood dirige “Un mondo perfetto”, interpretando il Texas Ranger che suo malgrado bracca Philip, bimbo che vive con tristezza assieme a due sorelle e alla madre testimone di Geova, e Butch, un galeotto che, rapendolo, gli regala avventura e libertà. Rimasto ingiustamente obliato (forse vittima dell’eccessiva vicinanza, nella cronologia eastwoodiana, con “Gli Spietati”), “Un mondo perfetto” è un bel dramma sui disastri dell’America profonda, e si fa perdonare qualche stucchevolezza: e la scena in cui il superaccessoriato camper dei ranger sfila accanto all’automobile degli inseguiti, accorgendosene troppo tardi, è una trovata satirica degna del tendone con le “stars & stripes” cucite in un manicomio di “Bronco Billy”. Funzionano bene i duetti di Eastwood con Laura Dern, nello stesso anno protagonista della super-boiata spielberghiana “Jurassic Park”.
Curiosità: il piccolo Philip è ossessionato da un costume del fantasmino Casper. Due anni dopo, Clint Eastwood si presterà a un simpatico cameo del film ispirato ai cartoni per bambini (è uno dei volti che si sostituiscono a quello di Bill Pullman, ossia il dottor Harvey, nello specchio davanti al quale costui si lava la faccia).
Ancora nel 1993, Eastwood è protagonista di “Nel centro del mirino”, diretto da Wolfgang Petersen (tedesco, già regista, in patria, di due grandi film: “U-Boot 96” e “La storia infinita”; a Hollywood, dirigerà poi i pessimi “Air Force One” e “Troy”). Interpreta un agente dei servizi segreti perseguitato dai rimorsi per non aver impedito l’uccisione di JFK, e che trova un’occasione di riscatto quando scopre che un maniaco, interpretato da John Malkovich, sta progettando di uccidere il Presidente in carica. Il suo superiore è interpretato da Fred Dalton Thompson, attore del telefilm “Law & Order” che più volte ha partecipato alle primarie dei Repubblicani. Per quasi vent’anni, Eastwood non sarà più diretto da altri registi.
Il 1995 è l’anno della comparsata in “Casper” e di “I ponti di Madison County”, filmone sentimentale tratto da un romanzo di R. J. Waller. Robert Kincaid è un fotografo inviato dal National Geographic a realizzare un reportage sui ponti coperti dello Iowa. Trova ospitalità da Francesca Johnson, massaia d’origine pugliese, che ha dedicato tutta la sua vita a servire il marito e i figli, al momento assenti: dopo quattro giorni di passione, lei dovrà scegliere fra continuare la monotona vita domestica e la libertà con Robert, a vagare sul suo camioncino.
La protagonista femminile, Meryl Streep, sperava di trovarsi di fronte Robert Redford: così carino, così democratico, così politicamente corretto. Agendo sempre in base ai ragionamenti aprioristici e i modi isterici che, più di recente, l’hanno portata a strillare dal palco dei Golden Globe che non accettava la vittoria di Trump sulla Clinton alle presidenziali, non gradì il trovarsi affiancata a Eastwood: rimasta alle cretinate di Pauline Kael su “Dirty Harry”, lo considerava rozzo, nazista e altre carinerie. Ma la paga era buona, così accettò il ruolo, consentendo a Eastwood di parlarle soltanto per esigenze sceniche. Anni dopo, lui ha ricordato l’incontro con la Streep come una delle sue migliori e più onorevoli esperienze professionali; ma l’abbraccio sulla locandina, è in realtà una foto (invero bellissima) nel quale Clint tiene in braccio la figlia Francesca (omonima della protagonista del film, ma nata due anni prima da Frances Fisher – la ruffiana di “Gli Spietati”); la testa della Streep, rifiutatasi di farsi ritrarre col “fascista”, fu sovrapposta al corpicino della bimba. “I ponti di Madison County” sorprende: ventidue anni dopo il fiasco di “Breezy”, l’annuncio d’un film sentimentale diretto (e stavolta anche interpretato) da Eastwood aveva suscitato scetticismo, ma il suo successo è andato al di là delle aspettative.
Bel film, ma si spera che Clint passi ad altro. Così è, due anni dopo: nel 1997 adatta per il grande schermo un bestseller di David Baldacci, “Potere assoluto”. Oltre a divertirsi nei panni d’un anti-eroe – Luther Whitney è, come già i protagonisti di “Fuga da Alcatraz” e “Pink Cadillac”, un criminale – Eastwood mette in scena un’interessante dato di realtà sulla politica americana: il “potere assoluto” del film non è detenuto né dal Presidente degli Stati Uniti, né dai servizi segreti, ma da un terzo personaggio. Forte di un bel cast (Laura Linney, l’amico Gene Hackman nei panni del Presidente, Judy Davis, Ed Harris, Dennis Haysbert e Scott Glenn), “Potere assoluto” rimane sottovalutato.
Sempre nel ’97 dirige, ma non un interpreta, un film con una situazione simile a quella di “Potere assoluto” (un uomo potente uccide l’amante): ma non è più un thriller politico. “Mezzanotte nel giardino del bene e del male”, ambientato in una New Orleans che (arricchita dalle scenografie di Henry Bumstead e dalla scultura di Silvia Shaw Judson “Bird Girl”) sembra la versione calda di Twin Peaks, segue l’inchiesta d’uno spaesato giornalista (il perennemente allibito John Cusack) sull’omicidio, perpetrato da un mercante d’arte (Kevin Spacey), d’un delinquente e suo amante occasionale (Jude Law). Adattamento d’un libro di John Berendt, basato su fatti e personaggi reali, accolto con stroncature feroci e scarso seguito di pubblico, pur con tanti difetti (divagazioni, l’immobilità di Cusack e Spacey) è una prova di coraggio di Eastwood, sempre più curioso di abbattere i confini tra generi cinematografici. È l’ultimo suo film in cui reciti il suo amico Geoffrey Lewis; ma sugli scudi c’è anche la transessuale Lady Chablis, adorata da Eastwood per la verve con la quale improvvisava le scene.
Nel 1999, “Fino a prova contraria” vede Clint nei panni d’un giornalista alcolizzato che, dodici ore prima dell’esecuzione d’un detenuto di colore, studia il dossier che al riguardo ha lasciato una collega appena deceduta: si convince che sia innocente e lotta contro il tempo per scagionarlo. La corsa allo zoo con la bimba (interpretata dalla figlia più piccola, la Francesca del poster di “Madison County”) e il flirt finale con Lucy Liu sono scene simpatiche; i duetti a suon di volgarità con James Woods, assai meno. L’ennesimo adattamento d’un bestseller e il solito ruolo di balordo dal cuore d’oro non pagano: il film fa fiasco, e Clint se l’è cercato.
Clint Eastwood arriva al 2000 pensando in grande. Sa che ad agosto, il Festival di Venezia lo omaggerà con una retrospettiva e col Leone alla Carriera: bisogna presentarsi con l’abito buono.

Quattro vecchie glorie del cinema interpretano quattro vecchie glorie della NASA. Tommy Lee Jones, James Garner, Donald Sutherland e il regista: Clint, sono gli “Space Cowboys”. Un satellite russo fuori controllo è attirato dalla gravità terrestre: non si rischia l’annientamento come, due anni prima, nell’idiotissimo “Armageddon” di Bay; ma la NASA deve convocare dei veterani, obsoleti come la tecnologia dell’arnese da fermare.
Sono le solite cose: vecchietti scatenati, battute salaci (terribile il Jerry di Sutherland), finale che più telefonato non si può. Ma il quartetto di protagonisti è formidabile, il film nel complesso è divertente, e per una volta che un film diretto da Eastwood costa (60 milioni), la qualità tecnica è sopraffina. Il pubblico accorre, e la giuria di Venezia acclama, nonostante in Italia qualcuno si ostini a parlare di Eastwood come d’una macchietta del cinema d’azione.
Perché in questi anni i detrattori sono tornati, e quando compaiono le prime foto di scena da “Blood Work”, nelle quali Eastwood è armato di fucile, non sembra loro vero di poter berciare ancora di vigilantismo, fascismo eccetera. “Debito di sangue” (2002, dai romanzi di Michael Connelly) è la storia di McCaleb, agente del FBI colpito da infarto mentre insegue un serial killer. Salvato con un trapianto di cuore, torna sulle tracce dell’assassino, istigato da una donna messicana, sorella di colei cui deve il cuore. Altro personaggio fragile: ma le accuse di machismo (e magari di razzismo) scompaiono.
Comincia il bello.Nel 2003 Eastwood dirige una tragedia ambientata a Boston, protratta dal 1975 al Duemila: uno scherzo idiota provoca l’uccisione d’una ragazza, Katie; il padre Jimmy, un malavitoso, istigato dalla moglie Annabeth (che ragiona e agisce come la Lady Macbeth di Shakespeare), cerca vendetta. La sua indagine risveglia il ricordo d’un antico dramma: da ragazzini lui, Dave e Sean stavano giocando a hockey per strada, quando con l’inganno due pedofili caricarono Dave in automobile e ne abusarono per giorni. Ormai adulti, Dave è rimasto instupidito dal trauma, e Sean è diventato un poliziotto, che non potrà fermare le macchinazioni di Annabeth e la violenza di Jimmy. Grazie anche agli acclamati Sean Penn e Tim Robbins, con Kevin Bacon e Laura Linney abili comprimari, “Mystic River” è un enorme successo che segna il ritorno di Clint al cinema “alto”.
Ma non basta. Nei bassifondi di Los Angeles, Frankie Dunn conduce, con l’ex pugile e amico di sempre Eddie “Scrap-Iron”, una scuderia di boxe. Scorbutico oltre ogni possibilità di sopportazione, si diverte solo a infastidire un prete cattolico e a studiare il gaelico con le poesie di William Butler Yeats. Corroso dal dolore per la figlia che non gli rivolge la parola (il film è raccontato, fuori campo, come lettera di Eddie alla ragazza; ma non sarà mai svelato il motivo del suo astio) e dal rimorso per non aver impedito che l’amico perdesse un occhio sul ring, deluso dal pupillo che lo ha lasciato in cerca di manager più arrembanti, quando Maggie, una cameriera che ha passato i trent’anni gli si presenta come promessa della boxe femminile, vede in lei solo un fastidio. Si dovrà ricredere, ma un nuovo grande dolore è in agguato.
Girato nel 2004, e uscito in Italia dopo il trionfo agli Oscar del 2005, “Million Dollar Baby” riunisce personaggi ed episodi di “Rope Burns”, raccolta di racconti di F.X. Toole, allenatore di boxe morto due anni prima delle riprese. Lancinante storia d’amore padre-figlia, racconto di formazione fuori tempo massimo, terribile spaccato dell’America profonda: la famiglia di Maggie (madre invalida per obesità, sorella che truffa la previdenza sociale, fratello galeotto) è una piccola galleria degli orrori, e la palestra di Frankie riassume la realtà del sogno americano: a tutti è dato d’inseguirlo, ma per un Willie che fa carriera, ci sono tanti “Bam Bam” Barch che fanno la fame e tanti Shawrelle che pestano i Barch per frustrazione.
Senza timore di mostrarsi fisicamente indebolito (piegato dalla scoliosi e rimpicciolito dall’osteoporosi), Eastwood firma il suo film più coraggioso, al limite della pornografia del dolore; e il ricorso all’eutanasia scatenò polemiche furiose. Geniale la risposta di Clint: quel che fa il mio personaggio non è necessariamente quel che farei io; per anni nei film ho spazzato via delinquenti a revolverate, ma questo non significa che mi sembri una bella impresa!
Ancor più di “Mystic River”, “Million Dollar Baby” riporta Eastwood al livello di “Gli Spietati” (ci tornerà con “Gran Torino”): un grande racconto dall’inferno di certa America mai uscita dalla Grande Depressione, con un’atmosfera intensissima e una protagonista meravigliosa, la Maggie di Hilary Swank, al secondo Oscar a soli trent’anni (bravissima, estremamente professionale – mise su 10 kg di muscoli per il ruolo – e dotata d’una bellezza particolare, distruggerà la sua carriera facendo da madrina, nel 2011, al 35imo compleanno del leader indipendentista ceceno Ramzan Kadyrow).
Nel 2006, un altro episodio di grande cinema: il dittico sulla battaglia di Iwo Jima, “Flags of Our Fathers” e “Lettere da Iwo Jima”: il primo dal punto di vista statunitense, l’altro da quello nipponico. Febbraio 1945, Fronte Pacifico della Seconda Guerra Mondiale: tra le ultime spallate delle forze statunitensi all’agonizzante Impero del Giappone, vi è l’assalto a Iwo Jima, isola disabitata e dominata dal vulcano Suribachi. 110mila americani attaccano 21mila giapponesi: i primi avranno 7mila morti e 19mila feriti, della guarnigione imperiale sopravviveranno 200 prigionieri. Un massacro di cui è rimasta celebre la fotografia, scattata da Joe Rosenthal, di sei soldati che issano sul Suribachi la bandiera a stelle e strisce.
Proprio la loro vicenda è al centro di “Flags of Our Fathers”, durante le cui riprese Eastwood ebbe l’ottima pensata di ribaltare la visuale sulla battaglia e, ispirandosi agli scritti rimasti del generale Tadamichi Kuribayashi, morto nell’assedio all’isola, e onorato dalla bella interpretazione di Ken Watanabe (che sette anni dopo sostituirà Clint in un remake nipponico di “Gli Spietati”).
Dopo il meraviglioso “Million Dollar Baby”, Eastwood è riuscito a realizzare uno splendido, originale dittico sull’assurdo orrore della guerra. Si supererà ancora. Walt Kowalski è un metalmeccanico in pensione, reduce della Guerra di Corea. Appena diventa vedovo, gli restano tre affetti: il barbiere italiano Martin, la cagnolona Daisy e la Gran Torino, automobile sportiva della casa in cui ha lavorato per decenni, la Ford. Detesta, ricambiato, i figli, la nuora e i nipoti. L’arrivo, nel sobborgo di Detroit in cui vive, di immigrati asiatici lo fa infuriare, e quando Thao, per essere accettato in una gang di ragazzini, si fa sorprendere nel suo garage, non ha problemi a minacciarlo con un fucile. Quando Thao, per castigo, sarà mandato dalla madre a fare lavori di corvée da Walt, i due diventeranno amici, e Walt difenderà il ragazzo, sua sorella Sue e la loro famiglia da dei piccoli ma aggressivi criminali. Rivalutato il giovane, ma già saggio, padre Janovich, Walt troverà il modo di riscattare una colpa che lo affligge da mezzo secolo.
La grazia e il lirismo di “Million Dollar Baby”, la solennità e la forza di “Gli Spietati”. “Gran Torino” è un altro magnifico capitolo del viaggio di Clint nell’America degli sconfitti, un’altra elegia sul crollo del sogno americano. Anche in questo film, sventolano ovunque bandiere a stelle e strisce: ma nessuno sa perché. “Million Dollar Baby” era la storia d’amore tra un padre e una figlia, “Gran Torino” è l’amicizia indistruttibile tra un padre e un figlio.
Notevole il duetto musicale, sui titoli di coda, fra Eastwood e Jamie Cullum. Agli Oscar del 2009, “Gran Torino” non ricevette nemmeno una nomination. Bisognava dare spazio a robette come “Millionaire”, Sean Penn che interpreta Harvey Milk, “Il cavaliere oscuro” ossia Batman con (fragili) pretese filosofiche e Heath Ledger che fa le faccine, e “Il curioso caso di Benjamin Button”. Se Hollywood è questa, stiamone lontani. In Italia invece Gianni Canova, sulla rivista “Duellanti”, sprona i suoi colleghi critici: smettiamo di dire che Clint è di destra. Ossia: i suoi film sono di belli, ma se lui fosse di destra, non potremmo apprezzarli. Rimarchevole esempio della disonestà intellettuale dei critici cinematografici e di certa “intellighenzia”.
Sempre nel 2008, Eastwood raggiunge un risultato più che discreto con un progetto secondario rispetto a “Gran Torino” (ma dal budget maggiore): “Changeling”, tragica storia d’una madre sola che nella California di fine anni ’20 cerca di fare chiarezza sulla scomparsa del suo bambino; deve scontrarsi con l’inefficienza della polizia, finché un detective intelligente e un presbitero coraggioso (interpretato dal ritrovato Malkovich) non la aiutano. A Clint, che resta dietro la macchina da presa, si attribuiscono virtù miracolose: riesce a far recitare bene Angelina Jolie!
Nei tre anni successivi, Eastwood dirige tre film senza recitarvi. I primi due, con Matt Damon co-protagonista, sono: il brutto “Invictus”, sull’alleanza mediatica tra Nelson Mandela (il solito Morgan Freeman nell’ennesimo ruolo di vecchio saggio) e il capitano della nazionale sudafricana di rugby, un film il cui unico risultato positivo (oltre agli incassi) è la smentita delle cattiverie di Spike Lee, cui il bellissimo dittico eastwoodiano su Iwo Jima non aveva fatto pensare nulla di meglio che… non vi si vedono pochi soldati di colore (mentre accusava Eastwood di razzismo, anche Lee realizzava un film sulla Seconda Guerra Mondiale: l’orribile “Miracolo a Sant’Anna”, una delle sceneggiature peggiori mai portate sullo schermo); andava un poco meglio con “Hereafter” (2010), audace ma irrisolto intreccio di tre storie sull’aldilà. Nel 2011, Eastwood torna a confrontarsi con le più controverse storie degli USA: “J. Edgar” ha protagonista Leonardo Di Caprio (col quale Eastwood si trova malissimo: ma fa nulla, l’importante è che non faccia più film con Damon) nei panni di John Edgar Hoover.
Nel 2012, il fattaccio della sedia. Durante la campagna elettorale del repubblicano Mitt Romney (candidato sul quale ha delle riserve), Eastwood rivolge un discorso a una sedia vuota: emblema del rifiuto di Obama, presidente democratico in carica (poi riconfermato), d’ascoltare le critiche. Scandalo: il pensiero unico col santino di colui che resta il Presidente USA più nocivo di sempre, anziché interrogarsi sulle critiche rivolte dall’artista, gli dà del demente.
Nello stesso anno, Clint smentisce le voce secondo le quali “Gran Torino” sarebbe rimasto il suo ultimo film da attore, e anzi torna a farsi dirigere da un regista diverso da se stesso (non succedeva, come si è detto, dal 1993: con “Nel centro del mirino”, regia di Wolfgang Petersen). Il film è una commedia piuttosto carina: “Di nuovo in gioco”, esordio registico di Robert Lorenz, già produttore d’alcuni dei migliori film recenti di Eastwood, che vi interpreta un talent-scout che, nonostante gravi problemi di vista, resta convinto di sapere riconoscere un campione di baseball. Fra tanti guai dovuti al suo rifiuto di ammettere la propria senescenza, viaggia attraverso gli USA con la figlia interpretata da Amy Adams, una delle attrici più affascinanti in attività. Nel medesimo anno, si sottopone al reality-show famigliare con protagonista la figlia Francesca: la trasmissione termina prima che Clint punti una 44. Magnum sulle telecamere che ne hanno invaso la casa.
Il periodo immediatamente successivo non è entusiasmante, con un trittico di altre “glorie” yankee: “Jersey Boys” (2014, sui Four Seasons, la band di Frankie Valli), “American Sniper” (’14, col nuovo pupillo Bradley Cooper nel ruolo di Chris Kyle, cecchino da record nella Seconda Guerra del Golfo) e “Sully” (2016, con Tom Hanks nei panni del pilota di linea che salvò l’equipaggio di un aereo civile atterrando nella baia di New York).
Nel 2018 gira due film. Un esperimento curioso, frettoloso e realizzato maluccio: “Ore 15:17 – Attacco al treno”, racconto di un attentato terroristico sventato da tre ragazzi statunitensi diretti in vacanza a Parigi. Interpretato (piuttosto bene) dagli stessi protagonisti del fatto, è la loro biografia (soprattutto di Spencer, ossessionato dall’esercito fin da bambino). Il film diretti da Eastwood superano sempre le due ore, questo dura un’ora e mezza (e i minuti finali sono filmati di repertorio): a parte offrire la passerella ai tre giovanotti e divertirsi con le loro sciocchezze da turisti americani a Roma e Venezia, non gliene importava molto.
Ha la testa altrove: sta girando “The Mule – Il corriere”, il suo film migliore dai tempi di “Gran Torino” (infatti lo scrive con Nick Schenk, già responsabile della sceneggiatura di quel meraviglioso film). Ispirato alla storia vera di Leo Sharp, veterano della Seconda Guerra Mondiale, corriere novantenne per il narcotraffico messicano. Nel film, “The Mule” è Earl Stone, reduce della Guerra di Corea, floricoltore che ha trascurato la famiglia a favore del lavoro; ma la prepotenza del commercio su internet lo riduce sul lastrico. Detestato da moglie e figlia, per pagare il matrimonio dell’adorata nipote accetta di trasportare un carico misterioso. Scopre che la paga è scandalosamente elevata, e continua ad accettare; si rende conto che sta trasportando droga fra gli Stati Uniti e il Messico, ma le buste che trova nell’abitacolo contengono sempre più dollari, e continua. Sulle sue tracce, a insaputa d’entrambi, l’agente della DEA Colin Bates (ispirato a Jeff Moore), col quale Stone ha avuto un incontro amichevole.
Nessuno spazio all’edizione super-buonista degli Oscar 2019 (“Green Book”, attori in gonna, un presentatore cacciato per battutacce di nove anni prima). La Hollywood fighetta e politicamente corretta non può offendere il suo pubblico di riferimento (i millennial rimbecilliti da sballo, gender e social network) con un film il cui protagonista deride bellamente gli schiavi dello smartphone privi di abilità pratiche, ha nostalgia dell’America profonda, rozza e provinciale, fa comunella con le (mirabolanti) “lesbiche in moto” e, a chi gli fa notare che “non si dice negro, ma persona di colore” risponde sorridendo: “questo non è vero”.
Un poco autoreferenziale (citazioni da “Gunny” e “Il cavaliere pallido”, più uno sguardo in macchina prima dell’epilogo), “The Mule” vede un Clint più fisicamente fragile che mai nel ruolo più simpatico (e deplorevole!) della sua carriera (l’ironia appena accennata in “Million Dollar Baby”, è più presente in “Gran Torino”, fa diventare “The Mule” quasi una commedia). È anche un passaggio di testimone a Bradley Cooper.
L’ultimo film (da regista, ma non da attore) alla vigilia dei 90 è “Richard Jewell”: come “Sully”, storia d’un eroe americano diffamato. È la vicenda, realmente accaduta, del vigilante (bamboccio obeso ma dedito al suo mestiere) grazie al quale un attentato bombarolo alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 fece due morti, e non oltre un centinaio. Raro caso di film eastwoodiano in cui la critica si sia dimostrata più acuta del pubblico, vede il regista mantenersi ai livelli – alti – di “The Mule” (il quale lo aveva riportato ai fasti di “Gran Torino”, con buona pace della Hollywood conformista). Attacco spietato e onesto al giornalismo d’assalto e al FBI gelosa della propria vanagloria, dopo tanti anti-eroi immaginari è l’occasione, per Eastwood, di raccontare come un perdente dotato di carattere possa dimostrare quanto vale. Il pubblico statunitense può distogliere lo sguardo: ma se ancora nel 2020 possiamo vedere al cinema cosa davvero l’America è (a dispetto di chi pretende di far credere che gli USA si riducono alla Manhattan super-glamour delle serie tv), lo si deve a un Eastwood 90enne più vigoroso di tutti i fumettari in circolazione.
Tanti auguri Clint Eastwood: mille di questi sguardi, brutalmente sinceri, sul mondo che ci circonda.