Un po’ di pedanteria: secondo la Treccani, il termine “icona” deriva da un parola greca poi passata al russo,“ikona”, e da qui al greco bizantino col significato di “immagine”; ciò per indicare le immagini sacre, peculiari dell’arte bizantina prima e russa poi, dipinte su tavolette dalla forma variabile. L’uso del termine è passato poi alla semantica e infine all’informatica e alla sociologia: nel costume, “icona” è un personaggio che attiri un seguito, o che sia rappresentativo di “un’epoca, un genere, un’ambiente”. L’icona è quindi, nell’accezione contemporanea, non tanto un personaggio importante, quanto uno estremamente rappresentativo, che evochi con immediatezza qualcosa nell’immaginario collettivo. La Treccani riporta l’esempio di Marilyn Monroe, il cui nome e la cui immagine da soli evocano la cultura pop occidentale del secolo XX. Il termine ha un uso ridotto, applicabile soltanto a quei nomi e quei volti immediatamente riconoscibili da chiunque: tutti sanno che Humphrey Bogart era un “duro del cinema”, magari l’altrettanto valido e talentuoso Robert Mitchum è ormai un idolo per soli cinefili, quindi non un’icona.
Non è una questione di qualità: passando alla musica, Madonna (Veronica Ciccone, non Maria di Nazareth) ha fatto sempre e soltanto spazzatura (per dirne con clemenza), ma è un’icona; un’artista meravigliosa e oscura quale Julia Holter, non lo è, dato che l’ascolta solo lo scrivente (ma non lo è nemmeno Kate Bush, più nota ma ormai “di nicchia”). Né del “peso” del contributo dato a un’arte: James Dean ha recitato in otto film, Donald Sutherland in quasi duecento, fra i quali svariate pietre miliari: ma Dean è un’icona (vuota), Sutherland un grande comprimario. L’icona resta, lungo svariati decenni, a rappresentare tutto un mondo: Audrey Hepburn l’eleganza femminile, Sean Connery la forza maschile.
Bagliori d’un mondo del quale resta solo il ricordo. Nel Duemila, lo spettacolo è usa-e-getta, come diceva Battiato in una canzone molto brutta (“La musica è stanca”): “tutta produzione / altissimo consumo”. Si abbassa il livello, e con esso le pretese: perciò anche i parametri per parlare di “icona”.
Oggi, tutto è “iconico”: anche il suo contrario. L’icona si afferma in quanto tale per la sua differenza da ciò che è estemporaneo; adesso, grazie a un giornalismo sempre più facilone e pressapochista, qualsiasi cosa attiri l’attenzione del pubblico per un momento, è definito “iconico”: è diventato iconico proprio il contrario dell’icona, dalle sceneggiate al festival di Sanremo ai post su Instagram dell’ennesima “influencer”: si definisce “iconico” ciò che è estemporaneo, la cronaca scandalistica cui entro pochi giorni se ne sovrapporrà dell’altra.
Il 31 maggio, compie 90 anni l’ultima “icona” del cinema in attività: Clint Eastwood. Ricorrenza tanto più preziosa, dato che si tratta dell’ultimo grande autore del cinema americano che sia rimasto operativo su livelli alti e continuando a rivolgersi a un pubblico ampio. Instancabile nonostante l’età avanzata, se nello scorso decennio il suo impegno a girare un film ogni anno non è stato garanzia di buona riuscita, le sue due opere più recenti (“The Mule” e “Richard Jewell”) lo hanno riportato a segnare un netto distacco con un panorama hollywoodiano tanto devastato da considerare come eventi dell’anno l’ennesima boiata di Tarantino o il Joker di Phoenix che fa le smorfie e dice ovvietà sul malessere americano; un’industria cinematografica ridotta a dipendere dalla reiterazione delle supereroiche banalità degli Avengers per garantirsi delle entrate, e prigioniera del ricatto dei movimenti “MeToo” e del politicamente corretto.
Nato in California, nel 1930, Clinton Eastwood jr. è cresciuto nella provincia americana devastata e imbruttita dalla Grande Depressione. Nonostante la fame, cresce tanto che ai primi provini sarà soprannominato “piccola sequoia”. Frequenta locali jazz in cerca di ragazze, con le quali ha successo: ma s’innamora soprattutto del blues e del pianoforte. Ma prima di rincorrere il sogno del cinema, si diploma in ragioneria, fa il metalmeccanico, il bagnino e il taglialegna; si arruola nell’esercito, sta per essere spedito nella Guerra di Corea, ma l’aereo su cui è imbarcato durante un’esercitazione cade nell’oceano.
Tornato a riva illeso coi commilitoni, con alcuni di essi comincia a bazzicare gli “studios” in cerca di fortuna. Il metro e novantatré di statura, la muscolatura notevole, la folta chioma biondo-castana e il volto abbronzato lo rendono ricercato per ruoli da soldato, marinaio, garzone, avventuriero: ma le sue doti attoriali sono ancora peggio che acerbe, e per quasi un lustro, vissuto con grande frustrazione, non va oltre brevi apparizioni in horror e western di serie B, e qualche episodio del telefilm con protagonista Francis il mulo.
Proprio la tv offrirà a Eastwood il primo ruolo da protagonista, ma non sarà una gioia: dal 1968 al 1965, stare nel cast fisso della serie western “Rawhide” significherà turni lunghissimi, l’antipatia per il suo stesso personaggio (Rowdy Yates, considerato da Eastwood una macchietta stucchevole) critiche continue da parte dei registi e soprattutto, come racconterà spesso una volta diventato regista, la loro opposizione alle sue richieste di dirigere qualche scena per imparare il mestiere (di fatto, a volte farà da regista della seconda unità).
La pazienza di Eastwood sarà premiata quando Sergio Leone cercherà, fra gli attori del telefilm il cui successo era sempre più calante (con rammarico non proprio esagerato da parte di Clint), il protagonista per un trittico col quale intendeva rivoluzionare il cinema western. Se gli altri attori di “Rawhide” considerarono assurda l’idea di film con cowboy che non fossero immacolati come i loro precedenti personaggi, Eastwood fu irresistibilmente attirato dalla prospettiva di cambiare i panni di quel Rowdy che “sbaciucchia vecchiette e cagnolini” per quelli d’un avventuriero con forse più ombre che luci.
Fu così che Clint Eastwood divenne “iconico”: con il ruolo dell’Uomo Senza Nome, noto anche come Biondo, co-protagonista assieme a Lee Van Cleef, Eli Wallach e Gian Maria Volonté della “trilogia del dollaro” (“Per un pugno di dollari”, 1964; “Per qualche dollaro in più”, 1965; “Il buono, il brutto e il cattivo”, 1966), diventerà il volto più noto degli “spaghetti-western”, che porteranno gloria anche al loro artefice, Sergio Leone, e al compositore delle celeberrime colonne sonore, Ennio Morricone, romano come il regista. Se il personaggio – l’antieroe individualista, buono quando ne abbia l’opportunità, taciturno, col mozzicone di sigaro perennemente incastrato fra i denti e la camminata lentissima – è disegnato in comunione di idee dal regista e dall’attore, la speranza di Eastwood d’impratichirsi con la regia più di quanto non gli sia stata possibile sui set di “Rawhide” si infrange contro i rifiuti di Leone. Ciò non impedisce ai due di stringere una salda amicizia (manifestata anche con suinesche gare a chi mangiava più pasta, tra lo sgomento delle maestranze), e nel corso dei decenni Eastwood non smetterà di tributare gratitudine a Leone.
Proprio Roma vedrà un altro confronto tra Eastwood e il cinema d’autore: sarà nell’episodio diretto da Vittorio De Sica di “Le streghe”, malriuscita antologia comica con protagonista Silvana Mangano. Il resto degli anni ’60 vedrà Eastwood dedicarsi per lo più a western, nei quali interpreta figure ispirate all’Uomo senza Nome dei film di Leone: “Impiccalo più in alto” (Ted Post, che a Eastwood resterà professionalmente legato, 1968), la commedia musicale “La ballata della città senza nome” (Joshua Logan, 1969, con Lee Marvin e Jean Seberg – che con Eastwood avrà una breve relazione), “Gli avvoltoi hanno fame” (Don Siegel, con Leone il regista più importante per la carriera di Eastwood, 1970, al fianco di Shirley MacLaine), “Joe Kidd” (Joe Sturges, 1972, con antagonista Robert Duvall).
Ci saranno comunque altre incursioni fuori dal genere western: un primo poliziesco, “L’uomo dalla cravatta di cuoio” (1968, primo incontro con Don Siegel), nel quale Eastwood è un vicesceriffo che dall’Arizona si trova a dover svolgere un’indagine nella New York, e un film bellico dall’enorme successo: “Dove osano le aquile” (Brian G. Hutton, 1968), con Eastwood e Richard Burton ufficiali anglo-americani in incognito durante la Seconda Guerra Mondiale.
Gli anni ’70 cominciano con un altro film ambientato nel secondo conflitto e diretto da Hutton, il picaresco “I guerrieri”, con Telly Savalas e Donald Sutherland, e “La notte brava del soldato Jonathan”, diretto da Siegel nel ’71: durante la Guerra Civile, Eastwood è un soldato unionista che, ferito, chiede soccorso a un collegio di educande, che lo riducono a un giocattolo.
Arriva la grande svolta. Nello stesso anno, sempre con Don Siegel, è protagonista (dopo le rinunce di Frank Sinatra e John Wayne) d’un film poliziesco tanto controverso quanto epocale: “Dirty Harry”, in italiano “Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!” (la -g- nel cognome è un’aggiunta, sciocca, dei distributori italiani, convinti che il pubblico locale non sappia pronunciare Callahan…), vagamente ispirato ai crimini del serial killer Zodiac (sul quale sarà realizzato, nel 2007, un film eponimo). Scabro, dotato d’una sua eleganza, ricco di scene da antologia (la rapina sventata da Harry, il monologo concluso con “do you feel lucky, punk?”, il salvataggio dell’aspirante suicida, la corsa notturna a tappe forzate, la tortura nello stadio vuoto), ritrae con efficacia una San Francisco terrificante, summa dei mali degli Stati Uniti (criminalità dilagante, povertà e meticciato, cinismo ed etica protestante – non per nulla, durante un appostamento, Harry abbatte a fucilate l’insegna al neon di una chiesa, adatta più a un locale a luci rosse). L’ispettore Harry “la carogna” Callahan, giustiziere fanaticamente ligio a un mestiere che lo ripaga soltanto con una frustrazione della quale si sfoga sparando col famosissimo revolver 44 Magnum Smith & Wesson, è un personaggio molto più complesso di quel che il solito criticume ha visto.
“Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!” non è, come hanno blaterato Pauline Kael e seguaci, un’apologia della violenza, del machismo, del giustizialismo: è il racconto, quasi giornalistico, di spaccati di vita americana che, con buona pace dei liberali più ottusi, ci sono; e l’Harry Callahan interpretato da Clint Eastwood è, prima che un poliziotto ossessionato dai criminali, un uomo solo e incapace di vedere alcunché oltre il male nel quale annaspa.
Non lo capirà la succitata Kael, che inserirà Eastwood nella lista dei personaggi da criticare aprioristicamente e con i quali rifiutare un dialogo civile (assieme al grande regista John Milius, che incontrandola a una festa la coprirà di ridicolo); non andrà meglio in Italia, dove Tullio Kezich (grande responsabile del fatto che un mestiere, già di suo vile, come quello del critico cinematografico, qui si faccia persino peggio che altrove), uno capace di tacciare di “fascismo” John Boorman, comincerà il perdurante ostracismo anti-eastwoodiano in Italia.
La differenza tra i critici cinematografici e i cineasti è però che, mentre gli uni cianciano a vuoto, gli altri realizzano; con buona pace quindi di quelle animucce belle che dalle pagine del New Yorker e del Corriere della Sera profetizzavano la trasformazione, mai compiuta, degli adorabili “dems” Robert Redford e Warren Beatty da attori tanto carucci in grandi registi, quel Clint Eastwood inviso ai pennivendoli perché bollato come repubblicano e fascista senza essere nulla di ciò, proprio con “Dirty Harry” cominciava la sua carriera da regista.
Perché l’esterno notte in cui l’ispettore Callahan “convince”, con un discorsetto non proprio cordiale e un cazzottone in faccia, un aspirante suicida a desistere, è diretta proprio da Eastwood, a quanto pare lieto del fatto che la sera di quelle riprese l’amico Siegel avesse la febbre alta.
Don Siegel stava comunque tramando, proprio sul set di “Dirty Harry”, l’esordio completo dell’amico. Durante la sparatoria con la quale l’ispettore Callahan sventa una rapina, il Nostro cammina di fronte a un cinema che annuncia la proiezione d’un film: “Play Misty For Me”. Trattasi del titolo originale di “Brivido nella notte”, esordio registico di Clint Eastwood, uscito nel 1971, stesso anno del grande film poliziesco.
Oltre a reclamizzare in “Dirty Harry” l’esordio da regista di Clint e oltre ad avergli permesso (volente o nolente) di dirigere una scena di questa pietra miliare “hard-boiled”, Siegel si prestò a un capovolgimento di ruoli: in “Brivido della notte”, è recita nel ruolo del barista amico del DJ interpretato da Eastwood: i due si cimentano in un gioco d’abilità al bancone del locale in cui il protagonista incontra la spasimante psicopatica che lo perseguiterà per il resto del film.
Forte di un buon successo di critica e botteghino, “Brivido nella notte” (il cui titolo originale è la richiesta, rivolta al DJ, di mandare per radio la canzone “Misty”) darà il via a una gloriosissima carriera da cineasta.
Nel 1973 saranno ben due i film diretti da Clint: “Breezy”, la storia d’amore fra il già maturo William Holden e una ragazza hippy (fiasco al botteghino); e soprattutto, “Lo straniero senza nome”, western opprimente in cui Eastwood, oltre a dare le prime prove di maestria tecnica (nelle interviste sfoggia una competenza rara riguardo uso delle inquadrature, attenzione al paesaggio, sfruttamento della luce e resa dei colori), alla caratterizzazione del suo personaggio nella leoniana “trilogia del dollaro” (il cowboy taciturno, quasi sempre malevolo, solitario) unisce le suggestioni fantasy (lo “straniero senza nome” può benissimo essere un fantasma, un angelo vendicatore, o un demonio) che torneranno nei suoi western migliori (“Il cavaliere pallido”, “Gli spietati”).
È soltanto l’inizio. Eastwood è ancora considerato soltanto un divo come tanti altri, un duro del cinema diviso tra western e polizieschi; è un attore bello e carismatico, ma dalle doti recitative limitate, e le sue iniziative registiche sono considerate un capriccio da star. Ma dietro il ghigno dell’uomo di Palmaso si cela tantissima pazienza.
Fra il 1973 e il ’74 contribuisce al lancio di due grandi talenti: John Milius e Michael Cimino. I due sceneggiano “Una .44 Magnum per l’ispettore Callaghan”: il secondo film di “Dirty Harry”, diretto da Ted Post, volto al solo scopo di smentire le accuse di “vigilantismo” – l’ispettore affronta infatti uno “squadrone della morte” di poliziotti che considerano il sistema giudiziario troppo clemente (fra di loro David Soul, dal telefilm “Starsky & Hutch”). Successo di pubblico enorme; ma sarà molto meglio, l’anno dopo, “Una calibro 20 per lo specialista”, diretto da Cimino che lo scrive assieme a Eastwood, avventura picaresca e storia d’amicizia virile tra un veterano della Guerra di Corea (“Artigliere”, Eastwood) e un ladro d’auto (“Caribù”, Jeff Bridges), in un’America profonda disagiata e disperata. Intorno a Clint si raduna la corte di attori e amici che spesso compariranno nei suoi film: George Kennedy, Geoffrey Lewis, Bill McKinney (noto soprattutto per una terrificante scena in “Un tranquillo weekend di paura” di John Boorman). Quattro anni dopo, Cimino realizzerà uno dei più grandi film di sempre, “Il cacciatore”, ma altri due anni dopo getterà via la sua carriera col delirio d’onnipotenza di “I cancelli del cielo”.
Raro esempio, “Una calibro 20 per lo specialista”, di film prodotto dalla Malpaso Company ma diretto da un regista che non sia il suo patron. La carriera di Eastwood regista coincide infatti con quella della sua casa di produzione, il cui nome è ispirato dal ruscello che costeggia Carmel, il paesino californiano in cui Eastwood abita (e del quale diventerà sindaco). Grazie alla creazione d’una casa di produzione sotto il suo controllo, Eastwood può così fare film distribuiti dalla potentissima Warner Bros. ma sotto la sua responsabilità: le conseguenze ricadono su di lui, ma il potere decisionale è interamente suo.
Quasi in base a un accordo non scritto, Eastwood può così alternare, a ogni film di cassetta, uno d’autore; sempre firmati Malpaso e distribuiti dalla Warner. Ad esempio, nel 1975 dirige una parodia di 007 (ruolo rifiutato da Eastwood), “Assassinio sull’Eiger”, nel quale Clint è un ex Berretto Verde, professore universitario e collezionista d’arte, alpinista e sicario (c’è da chiedersi quante ore durino le sue giornate). Il film è brutto (e molto volgare), ma permette a Eastwood di realizzare, nel ’76, un film più ispirato e “suo”: “Il texano dagli occhi di ghiaccio” (il cui protagonista, “il fuorilegge Josey Wales” come dice il titolo originale, proviene però dal Missouri), uno dei film più lodati dell’Eastwood regista – che divenne tale dopo aver licenziato Philip Kaufman (episodio che portò la Director’s Guild a sottoscrivere la “Eastwood rule”, con la quale si proibisce, a chi licenzi un regista, di sostituirlo con se stesso). Per l’universo eastwoodiano, il film è importante perché è il primo in cui Clint sia doppiato, nella versione italiana, da Michele Kalamera, e soprattutto perché inaugura il lungo (e terminato malissimo) sodalizio, artistico e sentimentale, con Sondra Locke.
La stessa alternanza è seguita con “Cielo di piombo, ispettore Callaghan”, anch’esso nel 1976, diretto da James Fargo, terzo episodio di “Dirty Harry”, qui affiancato da una poliziotta interpretata da Tyne Daly (anni dopo, protagonista d’un telefilm poliziesco con protagonista un tandem femminile: “Cagney & Lacey”): insieme affrontano, a colpi di 44 Magnum e bazooka, una banda di sbandati che si spacciano per rivoluzionari comunisti; ma è molto meglio, nel ’77, “L’uomo nel mirino” (in entrambi i film recita, sempre nel ruolo di collega e amico del protagonista, John Mitchum, fratello del più celebre Robert).
Surreale fino al delirio, “L’uomo nel mirino” (in originale “The Gauntlet”: le forche caudine che gli sventurati protagonisti percorrono nell’allucinato finale) è una parodia (sin dall’esagerata locandina disegnata, su richiesta di Eastwood, da Frank Franzetta) arguta e spettacolare del cinema d’azione e del machismo: il poliziotto protagonista, Ben Shockley, deve rassegnarsi al fatto che la prostituta che scorta a un processo, Gus, è più intelligente di lui, e a lei si affida; e sono rimaste nell’antologia dei film d’azione la distruzione della casa di Gus e la folle avanzata del bus corazzato lungo il “corridoio” che attraversa Phoenix.
Tra il 1978 e il 1980, Eastwood e compagnia fanno incassi strepitosi con due commedie dirette dai fidi James Fargo e Buddy Van Horn: “Filo da torcere” e “Fai come ti pare”, nei quali Clint interpreta Philo Beddoe, un camionista che arrotonda col pugilato clandestino a mani nude, si accompagna a un orangotango di nome Clyde, ha il cuore spezzato da una cantante country ed è innocuamente perseguitato da una banda di motociclisti deficienti, “Le vedove nere”.
Nello stesso periodo, mette a segno due dei suoi film migliori. Nel 1979, interpreta il suo ultimo film diretto da Don Siegel: “Fuga da Alcatraz”, dalla storia vera di Frank Morris, detenuto dal quoziente intellettivo molto superiore alla media che assieme ai fratelli Anglin riuscì a scappare dal famigerato penitenziario della baia di San Francisco. Suo antagonista, un grande sottovalutato: Patrick McGoohan (che come Eastwood rifiutò il ruolo di 007), una dozzina d’anni prima ideatore e interprete del geniale telefilm “Il Prigioniero”, qui ironicamente nel ruolo del rigidissimo direttore del carcere. Nel 1980, per festeggiare i suoi cinquant’anni, Eastwood dirige e interpreta un altro apologo della libertà: “Bronco Billy”, adorabile commedia sul sogno del Selvaggio West, l’amicizia e la lealtà. Clint è “Bronco” Billy McCoy, venditore di scarpe rimasto bambino nell’animo, fuggito da New York per inseguire il miraggio dei western che guardava da piccolo. In “Bronco Billy” si fa notare una delle trovate satiriche più feroci della filmografia eastwoodiana: il tendone del circo in cui la sua compagnia si esibisce in peripezie che non sempre riescono, è formato da bandiere a stelle e strisce intessute fra loro dai pazienti d’un manicomio.
Un dettaglio: nello stesso anno, il cantante Scatman Crothers (già doppiatore di Scat-Gat in “Gli Aristogatti”) ha avuto un ruolo sia in “Bronco Billy” che in “Shining”, meraviglioso horror tratto da un romanzo di Stephen King e diretto da Stanley Kubrick. Lo stile sul set dei due registi è del tutto differente: Eastwood, salvo completi disastri, non ripete mai lo stesso ciak più di due volte; Kubrick pretendeva di rifare la stessa inquadratura per decine di volte (la scena di Shining in cui Halloran, il personaggio di Crothers, si presenta al piccolo Danny fu girata 150 volte). “Shining” è uno dei film più belli di sempre, ma non è pensabile che girando le scene con meno insistenza sarebbe riuscito meno bene (e alla povera Shelley Duvall sarebbe stato risparmiato un esaurimento nervoso); così come non è detto che costringendo il cast a ripetere fino all’esasperazione le scene, “Bronco Billy” sarebbe stato un film migliore di quel che è.
Andrà meno bene coi film immediatamente successivi. “Firefox – Volpe di fuoco” (1982), diretto e interpretato da Eastwood, lo vede nei panni d’un pilota che deve trafugare il super-aereo da caccia russo del titolo: ha ispirato il nome a un web browser tuttora utilizzatissimo, ma fu un fiasco; così come, lo stesso anno “Honkytonk man”, storia d’un cantante country ridotto allo stremo da tisi e alcool, film in cui Clint canta e suona (e pure bene) e fa recitare il figlio Kyle (che intraprenderà poi una carriera da jazzista).
Le sorti al botteghino saranno risollevate, nel botteghino, da due film assai simili. “Coraggio… fatti ammazzare”, quarto episodio della saga dell’ispettore Callahan, è l’unico sequel interessante di “Dirty Harry” – e il solo diretto dallo stesso Eastwood (nel 1983, col titolo originale “Sudden Impact”). L’ispettore vi incontra una inquieta pittrice, interpretata dalla Locke, che sta sterminando la banda di balordi che, anni addietro, violentò lei e la sorella (rimasta catatonica). Rimasto nella storia del cinema poliziesco (oltre che per l’incasso esagerato) per la frase che in italiano corrisponde al titolo (in originale, il più raggelante “make my day”, “dai un senso alla mia giornata”, sibilato da Callahan a un rapinatore), per l’atmosfera da incubo (soprattutto del confronto finale al luna-park), l’elettricità della coppia Eastwood-Locke e la rinnovata vena poetica dell’ispettore (al suo meglio nel monologo con cui mette in guardia un delinquente dalle “tante cose che possono succedere alla m…a di cane”).
Nel 1984 esce “Corda tesa”, diretto l’anno prima da Eastwood (ma accreditato a Richard Tuggle, sostituito a riprese appena cominciate ma non licenziato per non incorrere nella “Eastwood rule”), quasi un remake sia di “Coraggio… fatti ammazzare” che di “Cruising” (controverso poliziesco di William Friedkin, con Al Pacino protagonista, girato quattro anni prima fra l’ira della comunità gay di New York): Clint è un poliziotto di New Orleans, divorziato con due figlie a carico (una interpretata dalla figlia Alison), incerto se cominciare una relazione con una collega (Geneviève Bujold) e timoroso di condividere le pulsioni dell’assassino di prostitute che sta braccando.
Sempre nell’84 divide lo schermo con Burt Reynolds in “Per piacere… non salvarmi più la vita”, commedia ambientata nella Kansas City degli anni ’30 e scritta da Blake Edwards, che rinnegò la sceneggiatura dopo essere stato sostituito alla regia, dalla Warner Bros., con Richard Benjamin.
A metà anni ’80, Clint Eastwood è noto come uno dei divi di Hollywood dal maggior successo di pubblico, ma i suoi primi tentativi autoriali non sono ancora stati considerati con serietà. Le cose sarebbero presto cambiate.
(continua)