Circola da diversi giorni la voce secondo la quale sarebbe morto, all’età di 90 anni, Sean Connery. Notizia ovviamente assurda: Sean Connery, come sa chiunque, non è mortale.
Profittiamo comunque dell’attenzione rivolta alla sua figura, e dal suo compleanno “tondo” di qualche mese fa, per passarne in rassegna la gloriosa carriera. Thomas Sean Connery nasce a Edimburgo il 25 agosto 1930, da una cameriera e un contadino. Assai minuto da bambino, durante l’adolescenza si sviluppa: diventerà un omone, alto e forte. Lavora da muratore e da becchino, posa nudo per gli studenti della locale accademia d’arte, si arruola nella marina ma è presto congedato per gravi problemi allo stomaco, si fa tatuare le scritte “mom & dad” e “Scotland forever”, rappresenta la Scozia al concorso di Mister Universo (arrivando terzo nella categoria “alti”); il Manchester United sta per ingaggiarlo come centravanti, ma il già 23enne Connery si rende conto di avere di fronte pochi anni di carriera da calciatore: problema che non si presenta con la recitazione.
Ambizione per la quale è aiutato da un’avvenenza spropositata (alla calvizie rimedia col toupet), tanto che dopo i primi ruoli di contorno comincia ad avere parti di rilievo: in “Estasi d’amore” recita accanto alla bella Lana Turner, allora fidanzata col gangster Johnny Stompanato (che sarà poi, pochi anni dopo, ucciso da Cheryl, figlia della Turner, accorsa in difesa della madre durante l’ennesimo pestaggio): questi, in preda alla gelosia, ha la trovata di puntare una pistola contro Connery… che lo mette KO, e ne ottiene l’allontanamento dal Regno Unito.

Già scartato al concorso indetto da un giornale per scegliere chi dovesse impersonare James Bond, l’agente segreto al servizio di Sua Maestà britannica protagonista dei romanzi di Ian Fleming (ufficiale di marina e spia d’alto livello nella Seconda Guerra Mondiale), Sean Connery fu infine scelto (dopo il no di Patrick McGoohan, allora popolare per la serie tv “Danger Man”: rifiutava di baciare le attrici, e di ricorrere eccessivamente alla violenza – ovviamente impossibile fargli interpretare uno dei personaggi più lesti con le donne e con le armi della storia del cinema) dai produttori Saltzman & Broccoli, nonostante le perplessità di Fleming, che trovò Connery dal fisico troppo imponente, e riteneva che le sue umili origini gli impedissero di rendere l’esagerata raffinatezza del personaggio: pur potendo vedere solo i primi due film (morirà nel 1964) della serie, si ricrederà (dopo aver spinto Connery a dormire con indosso lo smoking, per adattarvisi).
Nel 1962 comincia per davvero (dopo la serie televisiva con Barry Nelson – attore poi comparso in “Shining”) la grande avventura cinematografica di James Bond, agente 007 con licenza di uccidere (come indica il doppio zero): cinque film tra il ’62 e il ’67, il ritorno quattro anni dopo per un sesto episodio (settimo della serie), e una dozzina d’anni dopo ancora, un film “non ufficiale”.
Ci sarà nel frattempo (1967) il primo dei due film non ufficiali di Bond: “Casino Royale”, co-diretto da John Huston, e funestato dall’assurdo rancore di Peter Sellers nei confronti di Orson Welles (in visita sul set, la principessa Margherita aveva rivolto la parola solo al genio di Kenosha).
“Licenza di uccidere” (“Dr. No”, Terence Young 1962), con Ursula Andress che esce dall’acqua; “A 007, dalla Russia con amore” (“From Russia With Love”, Young 1963), con l’italiana Daniela Bianchi braccata da Lotte Lenya, munita di scarpe con le lame; “Missione Goldfinger” (“Goldfinger”, Guy Hamilton 1964), con Shirley Eaton verniciata d’oro, il cattivo del titolo che minaccia di uccidere Bond con un raggio laser (“Non si aspetterà che io parli?” “No Bond, mi aspetto che lei muoia!”) e il dialogo più greve di tutta l’epopea 007 (quando l’assistente del perfido Goldfinger gli si presenta come “Pussy Galore”, Bond pensa d’essere in un sogno: il nome della ragazza è traducibile “f**a in abbondanza”); “Thunderball: Operazione Tuono” (Young, 1965) con il leggendario zaino-razzo (la giocosità ne farà uno dei film preferiti da Fellini), Adolfo Celi nei panni del “villain” e l’incantevole Claudine Auger in quelli (succinti) di Domino; “Si vive solo due volte” (“You Only Live Twice”, Lewis Gilbert 1967), con Donald Pleasence che mostra finalmente il volto del super-cattivo Ernst Stavro Blofeld, perennemente con camicia coreana e gatto bianco in grembo, e i titoli di testa con la più bella canzone di tutta la saga (musica di John Barry, testo di Leslie Bricusse e voce di Nancy Sinatra).
Il successo è spropositato, James Bond non è soltanto il protagonista di romanzi e film d’intrattenimento: è ciò che gli uomini di mezzo mondo vorrebbero essere – bellissimo, fortissimo, raffinato ed elegante, colto e intelligente, si ingozza di cibo da gourmet e trangugia alcolici senza schiattarne, guida automobili formidabili, visita le località più esclusive del mondo, vive grandi avventure e supera difficoltà terrificanti facendosi appena qualche graffio, e soprattutto si congiunge con legioni di donne bellissime; d’altro canto, è l’uomo che le donne di mezzo mondo desiderano.
La critica, non capendo di trattarsi di fronte a uno dei più grandi fenomeni della cultura popolare di sempre, snobba i film di 007; ma i film fanno incassi portentosi, i gadget si vendono come il pane, i romanzi di Fleming tornano a invadere le librerie, e Connery è l’uomo più ricercato del mondo. Non ha più una vita privata, trova giornalisti e ammiratori ovunque (il fratello Neil, in trasferta romana, ne approfitterà per spassarsela); soprattutto non ha più il suo nome: per strada lo chiamano “James Bond”, oppure “007”.
Il divo prova sin da subito a liberarsi di questa schiavitù. Già nel 1962, anno del primo film di Bond, era stato parte del gigantesco cast (Wayne, Mitchum, Jurgens, Frobe, Ryan, Steiger, Mineo, Segal, Ferrer…) del kolossal bellico “Il giorno più lungo”, dedicato al D-Day. Nel 1964 (fra “Dalla Russia con amore” e “Goldfinger”) è in “La donna di paglia”, uno dei film che dovrebbero lanciare Gina Lollobrigida a Hollywood; ma soprattutto è in “Marnie” di Alfred Hitchcock. Connery interpreta Mark, ragazzotto di buona famiglia e belle speranze, che innamoratosi appunto di Marnie (Tippi Hedren, musa e vittima di Hitchcock), splendida donna con vari disturbi psichici, la assume, la sposa e indaga sui suoi traumi. Particolarmente ben riuscito l’accostamento tra la virilità al contempo elegante e animalesca del moro Connery, e la bellezza algida della bionda Hedren, tra la carica sessuale debordante di lui e la frigidità di lei.
Nel 1965, Connery gira un altro classico del cinema di guerra, col suo regista preferito: “La collina del disonore”, diretto da Sidney Lumet. Dopo la cinquina di 007, gira “Shalako”, in cui è un pellerossa: al suo fianco, il sex symbol femminile più in voga – Brigitte Bardot. Poi è Roald Amundsen in “La tenda rossa”, con Peter Finch nei panni di Umberto Nobile. Seguono “I cospiratori” di Martin Ritt, e “Rapina record a New York” ancora di Lumet.
Purtroppo per Connery, Saltzman & Broccoli si erano illusi di poterlo sostituire con un fotomodello australiano, con alle spalle qualche spot pubblicitario: ma l’aitante George Lazenby non si dimostrava attore in grado di reggere il peso del personaggio più popolare del cinema di allora. Un film curioso come “Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà”, primo episodio diretto da Peter Hunt, poteva avvalersi d’un cattivo quale Telly Savalas, d’un caratterista d’alto livello quale Gabriele Ferzetti, e della splendida Diana Rigg, già nota come la Emma Peel fasciata nelle tute aderenti del telefilm “Agente speciale”. Notevole successo di pubblico: perché sul poster il nome di Lazenby era quasi invisibile, e molti spettatori andavano al cinema dando per scontato di vedere il beniamino di sempre, Connery. Rivalutato anni dopo, pur avendo dalla sua alcune qualità (“We Have All The Time In The World” cantata da Louis Armstrong, e soprattutto la Rigg) sarà in un primo momento considerato un’ignominia dai devoti bondiani.
Pur essendo impegnato, da contratto, a proseguire, l’umiliato Lazenby rifiuta d’interpretare ancora Bond: e Broccoli non lo trattiene. Anzi, corre a supplicare Connery. Che nonostante il terrore di restare sempre più imprigionato nel personaggio, accetta; purché la United Artists finanzi il suo prossimo film (il sottovalutato “Riflessi in uno specchio scuro”).
Il risultato è deludente: “Agente 007 – Una cascata di diamanti” è schiacciato, come lamenterà Connery, dai pur pregevoli effetti speciali di Ken Adam. Pur impaziente di liberarsi di 007, Connery si trova bene sul set: conquista sia la Bond-girl protagonista, la fulva Jill St. John, che Lana Wood (nel ruolo di Plenty O’Toole: il cognome è un omaggio al divo Peter, il nome… lasciamo stare): le due si azzufferanno per decenni, prima per contendersi Connery, poi per i sospetti di Lana sulla morte (un mistero tuttora insoluto) della sorella, Natalie Wood (il cui vedovo, Robert Wagner, sposerà la St. John).
L’anno seguente Connery gira, col finanziamento promesso dalla UA, la trasposizione cinematografica d’un dramma teatrale: “Riflessi in uno specchio oscuro” (“The Offence”), col quale Lumet filma un virtuosismo recitativo del Nostro, nei panni d’un poliziotto che, sull’orlo della follia per gli orrori cui ha assistito durante la carriera, picchia a morte un sospettato di pedofilia.
Nel 1974 è un agente dell’antiterrorismo in “Ransom”, e ancora per Lumet partecipa al film corale, tratto da Agatha Christie, “Assassinio sull’Orient Express”, con Albert Finney nei panni di Poirot; Connery interpreta un ufficiale britannico in congedo, fidanzato con un’insegnante (Vanessa Redgrave).
Ancora perseguitato dall’incubo-Bond, nello stesso anno Connery accetta un film di fantascienza di John Boorman, che reduce da tre successi (“Senza un attimo di tregua”, “Duello nel Pacifico” e “Un tranquillo di weekend di paura”) e un fiasco (“Leone l’ultimo”) riesce a vincere le perplessità della Warner Bros sul progetto. In un futuro dominato dal terrore e dall’inciviltà, Connery è Zed, uno degli Sterminatori che flagellano i Bruti, schiavizzati da un’élite di Immortali; finché Zed non cerca cosa stia dietro Zardoz, “divina” testa di pietra volante. Visionario, poetico, cervellotico: “Zardoz” fa parte della voga di film di fantascienza “filosofica”, frequenti in quegli anni (si pensi a “Quintet” di Altman, “La decima vittima” di Petri, “Alphaville” di Godard) nonostante lo scarso successo tra il pubblico e l’incomprensione della critica. Etichettato (stupidamente) come “kitsch” (ma va riconosciuto: che il protagonista se ne stia in mutande, bandoliera e stivali rossi, non aiuta), “Zardoz” (seppur non riuscito) è un rimarchevole esempio di cinema bizzarro ma intelligente, e il suo fascino (visivo e non solo) è, in più passaggi, immenso; oltre a essere una messa in scena della poetica di Boorman, è una bella prova di Connery – e di Charlotte Rampling.
Il biennio 1975-’76 è forse il momento più splendido nella carriera di Connery. Pochi attori, anche di prima grandezza, possono vantare un trittico del livello di “Il vento e il leone” (il film migliore di John Milius), “L’uomo che volle farsi re” (diretto da John Huston, che in “Il vento e il leone” recita) e “Robin & Marian” (di Richard Lester, già regista dei film con i Beatles).
Megalomane, lunatico, capriccioso, prepotente, ottuso: el-Raisuli, capo berbero che nel Marocco d’inizio ‘900 rapisce una famiglia statunitense per chiedere a Theodore Roosevelt la libertà per le sue tribù, è forse il personaggio più simpatico interpretato da Connery. “Il vento e il leone” è l’elegia dedicata a un grande avventuriero (realmente esistito: ma i fatti che hanno ispirato il film sono, in esso, assai modificati) che riassume in sé tutta quell’era del cinema d’avventura (negli anni Settanta già obsoleto) così capace di far sognare – come succede nella bella scena in cui un bambino, ostaggio e ammiratore del berbero, ne rivede in sogno le gesta. Connery è splendido, nell’interpretare questo personaggio tanto stupido quanto grandioso, e incapace d’essere prosaico: “Ci rivedremo, signora Pedecaris, quando saremo due nuvole d’oro nel vento…”
In coppia con l’amico di tutta la vita, Michael Caine, “L’uomo che volle farsi re” è forse il film migliore nelle carriere d’entrambi. Tratto da un romanzo di Rudyard Kipling (che nel romanzo omonimo si cela dietro l’io narrante), è la storia di due scapestrati ex militari, massoni, che riconoscendo in Kipling (interpretato da Christopher Plummer) un confratello (il grande scrittore e avventuriero lo era davvero), lo incaricano di narrare l’impresa con la quale si propongono di eguagliare le gesta di Alessandro Magno: la conquista del Kafiristan. Rossana, la donna che nel film il personaggio di Connery pretende in sposa, è interpretata da Shakira Caine, nella vita reale moglie di Michael. Musiche di Maurice Jarre, già Oscar per “Lawrence d’Arabia”.
Altro film dedicato a un eroe che non si rassegna alla propria sconfitta e alla distruzione del suo mondo, è “Robin & Marian”. Connery è Robin Hood che, dopo aver visto Riccardo Cuor di Leone (Richard Harris) farsi uccidere per capriccio, torna a Nottingham dalle Crociate, assieme a Little Bill (Nicol Williamson, poi Merlino in “Excalibur” di Boorman). Trova gli amici della foresta vessati più che mai dal re Giovanni Senza Terra (Ian Holm), e scopre che Lady Marian (Audrey Hepburn, tornata per l’occasione da sette anni di esilio romano), stanca d’aspettarlo, è diventata suora. Dovrà allora ingaggiare un duello con l’amico-nemico di sempre, lo sceriffo di Nottingham (Robert Shaw, già antagonista di Connery in “Dalla Russia con amore”, e nello stesso anno co-protagonista del suo film di maggior successo: il cretinissimo “Lo Squalo” di Steven Spielberg). Tragedia cupissima, storia d’amore lancinante, finale crudele e devastante: una piccola meraviglia. Vestiti di stracci, sporchi, invecchiati e stanchi, i Robin & Marian di Connery & Hepburn sono una delle coppie più belle mai viste al cinema (e, in altra maniera, lo sono anche Connery & Shaw).
Meno felice la fase immediatamente successiva: dopo l’innocuo intrigo internazionale “Il prossimo uomo”, Connery partecipa a un altro kolossal bellico dal cast affollato di star, come già in “Il giorno più lungo”: ma lì aveva poco più d’una comparsata, qui è tra i protagonisti – il generale britannico Roy Urquahrt. Se però “The Longest Day” narrava un episodio bellico notissimo – lo sbarco in Normandia, “A Bridge Too Far” ne raccontava uno forse per intenditori: l’operazione Market-Garden; soprattutto, questa si era risolta, per gli Alleati, in una sconfitta. Così, nonostante un cast di forte richiamo (Olivier, Ullmann, Hackman, Redford, Hopkins, Caine, Caan…), “Quell’ultimo ponte” incassò molto meno di quanto sperato dalla United Artists (che sarà poi affossata dai capricci di Michael Cimino per “I cancelli del cielo”).
Col fiasco di “Quell’ultimo ponte”, comincia un breve periodo di crisi: nonostante le aspettative, “1855 – La prima grande rapina al treno” (1979, scritto e diretto da Michael Crichton), in coppia con nulla meno che Donald Sutherland, non entusiasma; e nel medesimo anno, fa fiasco l’appena interessante “Cuba” (ancora diretto da Richard Lester), mentre è catastrofico – sia per il genere che per l’esito – “Meteor”.
Gli anni ’80 cominciano appena meglio, con un classico della fantascienza: “Atmosfera Zero” di Peter Hyams, e un doppio ruolo in “I banditi del tempo” di Terry Gilliam. Nonostante quel che può far credere il titolo italiano, “Obiettivo mortale” (in originale: “Wrong Is Right”) è un film grottesco. Sontuoso melodramma di Fred Zinnemann nel 1982: “Cinque giorni, una estate”, con Connery alpinista in fuga d’amore con la nipote: né la critica né il pubblico apprezzano.
Nel 1983, le sorti di Connery risalgono grazie a un Bond… apocrifo. “Mai dire mai” (“Never Say: Never Again”, titolo ironico riguardo il “mai più” ripetuto da Connery a chi gli chiedesse se fosse possibile un suo ritorno nei panni di Bond, dopo il mediocre “Una cascata di diamanti”), diretto da Irvin Kershner (regista dei secondi episodi di “Guerre Stellari” e “Robocop”) sfrutta quello che sarebbe dovuto essere il soggetto di “Thunderball”, originariamente pensato come primo episodio di 007.
La Bond-girl Domino è qui Kim Basinger (dopo il rifiuto di Dalila Di Lazzaro), l’antagonista Largo è l’austriaco Klaus Maria Brandauer (allora richiestissimo, dopo il clamore suscitato da “Mephisto”), M (il “capo” di Bond) è Edward Fox, e il titanico Max Von Sydow (tra le condizioni poste da Connery ai produttori, ci fu proprio la partecipazione del grande svedese) compare, sornione almeno quanto il gatto che culla fra le braccia, nei panni di Blofeld; c’è anche Rowan Atkinson, qualche anno prima di Mr. Bean.
Un Bond “non ufficiale”: la Taliafilm di Jack Schwartzman aveva comprato il soggetto di Kevin McClory per il “Thunderball” mancato, filmando “Mai dire mai” mentre la Eon di Broccoli & Saltzman produceva il tredicesimo film della serie ufficiale, il sesto e penultimo dell’era Roger Moore: “Octopussy – Operazione piovra”; una leggenda parla di reciproci dispetti fra i set, durante alcuni giorni di riprese a Londra. Connery, che dovette sobbarcarsi alcuni aspetti della produzione data l’inesperienza di Schwartzman, dovette imparare alcuni rudimenti d’arti marziali dall’ancora ignoto Steven Seagal, il quale si vanterà anni dopo, in un’intervista, d’averlo punito rompendogli un polso. Vincerà di poco, “Octopussy”, la sfida degli incassi: però “Mai dire mai”, seppur “spurio”, gli è un poco superiore.
Segue il periodo medievale: è il Cavaliere Verde incontrato da Ser Galvano in “Sword of the Vailant” (1984), e nel 1986 registra due dei suoi maggiori successi di pubblico: è Ramirez, lo spadaccino spagnolo (giunto fin dall’antico Egitto) che insegna l’arte del duello a Connor MacLeod, il protagonista scozzese (come Connery, ma interpretato dal francese Christopher Lambert, divo del momento nonostante le scarsi doti attoriali) di “Highlander – L’ultimo immortale”, diretto dal videoclipparo Russell Mulcahy e impreziosito da canzoni dei Queen; ed è Guglielmo da Baskerville (grazie alla pretesa di Robert De Niro, scelta iniziale, di far finire tutto a colpi di spada) nel sopravvalutato “Il nome della rosa”, diretto da Jean-Jacques Annaud dal romanzo di Umberto Eco (poderosa prova d’erudizione basata su di una visione fuorviante del Medioevo e del cristianesimo).
Cosa manca a Connery? L’Oscar. Che, l’anno dopo i due successi di “Highlander” e “Il nome della rosa”, arriva.Obbligato sette anni prima, per questioni contrattuali, a rinunciare a “Vestito per uccidere” (lo sostituirà l’amico Michael Caine, che rifiuterà poi “Il nome della rosa”), Connery può finalmente recitare (dopo il rifiuto dell’80enne James Stewart: troppo stanco e malato per recitare, ma attivissimo con gli affari e il giardinaggio) per Brian De Palma, che gli fa impersonare Jim Malone (personaggio immaginario, in un film basato su fatti realmente accaduti), amico e mentore di Eliot Ness (Kevin Costner), l’agente FBI (ai tempi: BOI) che sconfisse Al Capone (Robert De Niro) nella Chicago del Proibizionismo.
L’anno dopo, in un’edizione particolarmente misera (e infatti dominata da “L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci, e presentata da Chevy Chase), sulle quattro nomination ricevute da “Gli Intoccabili”, l’unico Oscar vinto è quello al miglior attore non protagonista: Sean Connery (la colonna sonora di Ennio Morricone è sconfitta dall’ennesima sbobba commissionata da Bertolucci al grande Ryuichi Sakamoto).
Il biennio ‘88/’89 è piuttosto denso: ancora diretto da Hyams in “Il presidio – Scena di un crimine”, poi due ruoli da padre: di Harrison Ford (nonostante solo dodici anni di differenza) in “Indiana Jones e l’ultima crociata”, e di Dustin Hoffman (e stavolta sono solo sette!) in un altro bel dramma di Lumet, “Sono affari di famiglia”.
Nel 1990, due successi ambientati nella Guerra Fredda: “La casa Russia”, con l’incantevole Michelle Pfeiffer e un altro incontro con Klaus Maria Brandauer, da un romanzo di John Le Carré; e soprattutto, “Caccia a Ottobre Rosso” (dal romanzo di Tom Clancy), uno dei maggiori successi di tutta la sua carriera, nonché una delle sue interpretazioni e uno dei ruoli con i quali è rimasto maggiormente identificato – nonostante: una stortura di fondo (Marko Ramius, il “maestro di Vilnius”, è un traditore); e il solito vizio conneryano di interpretare ruoli delle più disparate nazionalità (stavolta un lituano, in “Gli Intoccabili” un irlandese, in “Highlander” uno spagnolo…) col solito, marcatissimo accento scozzese. La scena più celebre è il discorso di Ramius con l’interfono del sottomarino, ma da antologia è la prima inquadratura: il dettaglio degli occhi di Connery che scrutano l’orizzonte.
Gli anni ’90 non aggiungono nulla alla gloria di Connery: nel 1991 partecipa al sequel di “Highlander”, compare nelle vesti di Riccardo Cuor di Leone alla fine del “Robin Hood” con Kevin Costner; seguono nel ‘92 “Mato Grosso”, diretto ancora da McTiernan, assieme a Lorraine Bracco, e nel ’93 il mediocre “Sol Levante” in tandem con Wesley Snipes; nel ’94 il grottesco “Alla ricerca dello stregone”; nel ’95, il poliziesco anti-razzista “La giusta causa” e soprattutto, l’imbarazzante “Il primo cavaliere” (diretto da Jerry Zucker, già regista di “L’aereo più pazzo del mondo” e “Ghost”), nel quale è Re Artù, tradito dalla Ginevra dell’imbambolata Julia Ormond con il Lancillotto del peggior Richard Gere mai visto (sceneggiate per i migranti escluse); nel ’96, enorme successo per l’orrendo “The Rock”, spettacolone d’azione di Michael Bay, che a Connery affianca Nicolas Cage; nel ’98, grande fiasco per “The Avengers – Agenti speciali”, riduzione del telefilm britannico anni ’60 “Agente speciale”: qui Connery è Sir August de Wynter, cattivone in kilt che, come lasciano intendere nome e cognome, minaccia il mondo stravolgendo il clima; nel ’98 è in “Scherzi del cuore”, drammone multigenerazionale; nel ’99 l’ultimo successo, “Entrapment”, discreto film d’avventura noto soprattutto per la scena in cui Catherine Zeta-Jones si insinua fra i laser di un’allarme.
Nel 2000 è protagonista assieme a Rob Brown del patetico “Scoprendo Forrester”, dramma di Gus Van Sant ispirato all’auto-reclusione dello scrittore Jerome Salinger. Nel 2003, dopo aver rifiutato il ruolo di Gandalf nel kolossal tratto da “Il Signore degli Anelli” di Tolkien (Ian McKellen ancora lo ringrazia), interpreta il suo ultimo film da attore, il mediocre “La leggenda degli uomini straordinari”, tratto da un fumetto che riunisce personaggi della letteratura fantastica (Mina, dal “Dracula” di Bram Stoker; Jekill & Hyde, da Stevenson; il capitano Nemo di Verne, l’Uomo Invisibile di Wells e Allan Quatermain, personaggio di Haggard noto anche per i film con Richard Chamberlain, e qui interpretato da Connery.
Dopo uno iato di nove anni, Connery chiude la carriera con due ruoli da doppiatore: nel 2012 presta la voce a un documentario sull’università di St. Andrews (“Ever to Excel”), e doppia il protagonista di “Sir Billi”, film d’animazione in CGI su di un veterinario che, armato di skateboard, lotta per salvare un castoro.
Il dibattito su quale sia il Bond migliore è improponibile: a ogni attore è stato assegnato un ruolo diverso. Il Bond di Connery non aveva lo humour di quello di Moore, la cupezza di quello di Dalton, la cattiveria di quello di Brosnan, il carattere complicato di quello di Craig. Connery è, considerando tutta la carriera, l’attore migliore del gruppo – per il talento Craig e Brosnan lo eguagliano, ma Connery ha recitato in ben altri titoli rispetto a loro; Moore non è mai stato un autentico attore, ma ha forse impersonificato Bond meglio degli altri.
Che il Bond di Connery sia il più leggendario, il più fantasioso, il più carismatico, il più affascinante, è comunque innegabile. E Connery non è stato solo questo.
Con l’addio di Connery alle scene, si chiude un’era del cinema. Quella degli eroi, della mascolinità positiva (non “tossica”, come dice qualche spacciatore di degenerazione), dell’avventura.
Ci rivedremo ancora, Sir Sean Connery, quando saremo nuvole d’oro nel vento…