Leggevo, quasi due settimane fa, l’ennesimo ottimo articolo del prof. Adriano Segatori per questa testata: “Franco Basaglia e i suoi sfacciati falsificatori” (2 dicembre 2020, rubrica “Facite ammuina”). Dopo aver letto un articolo sul triestino “Il Piccolo”, il dott. Segatori replicava a Mario Colucci, a sua volta indispettito dal fatto che in un libro inglese di recente pubblicazione Basaglia sia stato descritto come “ideologico e antiscientifico”. Rispondeva, Segatori, con una serie di citazioni da “La nave che affonda”, forse il testo più noto di Basaglia.
L’ammirazione incondizionata per Franco Basaglia è uno dei tanti vizi della cultura italiana contemporanea: assieme a quella per Sandro Pertini, Enrico Berlinguer e altri grandi sopravvalutati, che non fosse per l’arcinota egemonia culturale di sinistra (inattaccabile, finché la destra partitica resta indifferente a qualsiasi iniziativa culturale non le faccia comodo) sarebbero ricordati con l’ignominia che spetta loro.
A ciò si sommino le devastanti semplificazioni d’una demagogia banalizzante che, con la tragicomica ascesa politica del Movimento Cinque Stelle, prosegue il suo dominio sull’opinione pubblica. Il recente proposito di “abolire la povertà” richiama in effetti quello basagliano di “abolire la follia”: curioso, a entrambe le iniziative ha partecipato Dario Fo, convinto sostenitore grillino in anni recenti, e molto prima legato a Basaglia e direttamente coinvolto nelle sue sceneggiate.
Pochi giorni fa ricorreva l’anniversario della scomparsa del grande avversario di Basaglia: Mario Tobino. Ma sarebbe più corretto dire che Basaglia era l’avversario di Tobino. La differenza tra i due personaggi sta anche nella forma: se Tobino argomentava delle critiche alle riforme di Basaglia, questi rispondeva insultando. Tacciò Tobino di essere mosso da “carità cristiana”: come fosse una colpa – quanto sia debole, scaduto il cattolicesimo post-Concilio Vaticano II si nota anche nella “santificazione”, anche da parte cattolica, d’un personaggio che ha contribuito alla voga sessantottina di usare “cristiano” come insulto. Basaglia rimproverò anche, a Tobino, d’essere affetto da “edonismo letterario”: come se “Biondo era, e bello” (un libro su Dante tanto bello, che avrebbe potuto scriverlo il Vate stesso) fosse un pamphlet alla Borgna (o, molto peggio, alla Andreoli).
Fin troppo ovvio, il moto d’invidia. A onta dell’esibizione (quella sì, figlia d’un “edonismo letterario”) di studi filosofici, Basaglia non è stato un grande intellettuale. Le sue riflessioni sono soltanto la reiterazione dogmatica della “analitica del potere” di Michel Foucault (pensatore più complesso e dotato di Basaglia): imitando il filosofo e antropologo, l’antipsichiatra ripete continuamente che ogni rapporto sociale è una questione di potere – il manicomio, la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro…
L’unica riflessione nel quale Basaglia abbia mostrato una minima autonomia di pensiero ha fatto assai più danni: la negazione dell’esistenza della malattia mentale – gli slogan “la follia è una condizione umana” e “da vicino nessuno è normale” fanno parte del frasario del post-sessantottino medio (assieme a citazioni da De André e Pasolini – i quali però, fossero ancora vivi, coprirebbero di sputi questi loro “esegeti”).
Basaglia ha contribuito – assieme a Laing, Cooper e gli altri burattini del Tavistock Institute – allo snaturamento della “psichiatria”, privandola della “psyché” – dell’anima: non c’è più uno spirito ferito da guarire, il disturbo mentale è soltanto un accidente neurologico, e lo si “cura” riempiendo il cervello di prodotti chimici. Il trionfo della “neopsichiatria”: gli ex sessantottini si rincretiniscono con gli ansiolitici, i sottoistruiti delle generazioni X, “millenial” e Z abboccano alla bugia della serotonina (la “molecola della felicità” dalla cui ricaptazione intersinaptica dipenderebbe la guarigione dalla depressione).
Se l’attuale prassi psichiatrica è prigioniera d’un falso scientifico collocabile al livello del terrapiattismo (incentivare la ricaptazione della serotonina provoca squilibri chimici nel cervello) che è anche un abominio filosofico, ideologico, spirituale (negare le ferite dello spirito, riducendo il malessere più profondo a una questione chimica: guarire il depresso non aiutandolo a migliorare la propria vita, ma con delle pasticche), è grazie alla despiritualizzazione della psichiatria portata avanti anche da Basaglia. Il danno sociale è ampio a vari livelli (il dilagare dei farmaci serotoninergici sta contribuendo, per fare un solo, gravissimo esempio, all’abbassamento del quoziente intellettivo medio nel mondo occidentale), ma gli antidepressivi vendono (e pure tanto) e i “neopsichiatri” hanno il lavoro semplificato: la psichiatria post-Basaglia è “soltanto chimica”.
Si blatera tanto di “legge Basaglia” e chiusura dei manicomi: una battaglia giusta, portata avanti con effetti devastanti. Solo a quarant’anni dalla morte del medico veneziano gli si contesta, timidamente, l’aver rovinato la vita a migliaia di “pazzi”, improvvisamente gettati per strada, e alle loro famiglie, che si trovarono dei disperati a carico. Le rivoluzioni sono buone, quando sono buoni i rivoluzionari: questa è la differenza tra Gesù e Gandhi da una parte, e Guevara e Mandela dall’altra.
Che la pratica psichiatrica fosse inaccettabile, non lo aveva notato soltanto Basaglia (spesso paragonato, risibilmente, a Copernico): lo sapeva anche Mario Tobino – che però era un grande medico, e sapeva che i problemi dei “matti” non si risolvevano chiudendo gli istituti psichiatrici, ma migliorandoli. Opzione troppo complessa e faticosa per Basaglia (e per i basagliani), che trovò comodo demonizzare il collega, reo d’averlo contraddetto (cosa che gli antipsichiatrici non tollerano mai), e più facile tirar giù (fisicamente) le pareti dei nosocomi.
Dicevamo: l’11 novembre dell’anno venturo ricorre il trentesimo anniversario dalla morte, in Agrigento, del dottor Mario Tobino. Va auspicato che – se le emergenze sanitarie lo consentono – la ricorrenza sia ricordata degnamente; e che si legga “Le libere donne di Magliano” invece di andare in brodo di giuggiole per Basaglia che scaglia in giro panchine di ghisa.
Premetto che parlo per esperienza personale e che ciò che ho imparato su queste problematiche le ho apprese subendo da piccolo ( sono del 59) le conseguenze di un caso di schizofrenia in famiglia e gestendolo , poi da adulto, applicando ciò che avevo visto fare da mio padre in maniera empirica e non professionale ma filtrando e mediando con il nostro bagaglio culturale e valoriale ciò che la “scienza” ci diceva per gestire al meglio una situazione che altrove ed , in altri contesti, poteva essere prodromica di drammi da cronaca cittadina o la tomba civile prima della 180 per il malato psichiatrico
Il dramma aggiuntivo di queste già di per sè tragiche situazioni è il doversi imbattere , però, nelle dispute ideologiche che tutto fanno meno che mantenere l’occhio puntato sull’unico elemento importante cioè il malato
E tanto più è tragico perchè si attua una ulteriore discriminazione sulla pelle del malato psichiatrico che non viene più considerato nella sua essenza e per la sua patologia ma viene tirato per la giacchetta per interessi che esulano dalla sua condizione
Un pò come succede ad un minore in determinate condizioni ma mai , ad esempio, ad un malato oncologico
Un malato di tumore non dovrà, ad esempio, mai subire lo stigma sociale di un disabile psichiatrico, mai sarà visto con sospetto neanche dal più imbecille degli individui ed una pacca “consolatoria” sulla spalla la otterrà da chiunque Che poi possa risolvere il suo problema è un’altra faccenda e dipende da determinate condizioni fisiche e da parametri scientifici ma non sociali e/o culturali che invece aggiungono pena alla pena
Questo per dire che l’approccio alla malattia mentale ed alla sua evidenza è vecchia come l’uomo ed i suoi mali
Si potrebbe partire dalla classicità greca e da Ippocrate che definiva la pazzia una delle caratteristiche della degenerazione del cervello e quindi si approcciava , già allora, scientificamente alla patologia
Potremmo, invece, parlare delle Pizie del Tempio di Delfi come di un approccio culturale e di una gestione organica e comunitaria della follia
Con l’avvento del Cristianesimo passiamo a San Paolo che nomina i folli di Dio
Nel medio Evo i malati venivano associati al Demonio ed i relativi Tribunali li condannavano al rogo( la Nostra Santa Giovanna d’Arco dovrebbe dirci qualcosa )
Con Erasmo da Rotterdam, invece, il cambio di paradigma culturale è rivoluzionario e la follia diventa catartica per la realizzazione di un mondo ideale e di tanto altro ancora si potrebbe accennare
Questo solo per fare esempi concreti di come la cultura dei tempi ha trattato l’argomento influenzandone , inevitabilmente, la gestione
Ma senza farla tanto lunga e venendo a tempi più recenti e che ci portano al nostro dottore più o meno “rivoluzionario”, c’è da dire che un primo cambio di prospettiva , in Italia, avvenne già nel ’68 con il passaggio delle competenze sui manicomi dal Ministero dell’Interno a quello della Salute
Come a dire che la follia non era più un problema di ordine pubblico ma di sanità
Coincidenza con lo spirito del tempo? Forse , anzi sicuramente visto che l’azione legislativa è solamente una presa d’atto di una mentalità e di un sentire, più o meno, comune.
Piccolo primo passo in avanti per una umanizzazione del malato e dei metodi di trattamento della patologia Trattamenti che sino ad allora facevano sì che le camicie di forza, gli elettroscock e tanto altro portavano i manicomi ad essere solo una delle discariche della società che fuori faceva finta di non vedere e non sentire ciò che succedeva dentro
Quello che fu lo schiaffo rivelatore , la sberla definitiva per una nuova presa di coscienza fu la famosa inchiesta dell’Espresso del ’70 con, tra le altre, la fotografia di quella bambina nuda legata al letto di contenzione a Collegno
Shock per chiunque dotato di senso di umanità
Da lì si determinò una accelerazione che portò alla 180 del nostro, anche se c’è da dire che i metodi ed i trattamenti erano oramai , per fortuna , a discrezione del singolo Direttore della struttura che non sempre era un kapò
Il tempo dell’epoca è stato favorevole alla legge Basaglia piuttosto che a Tobino ? Sicuramente è stato così ma a maggior ragione con il senno di poi, piuttosto che buttare via il bambino con l’acqua sporca , si dovrebbe parlare e discutere di egemonia culturale ed interrogarci su quello
Se tutto allora era “democratico” compresa la psichiatria bisogna interrogarsi piuttosto sul dopo 180 e su come non si è saputo gestire l’ex post legislativo
Non mi risulta che nessuna scuola di psichiatria che sia “democratica o meno” abbia saputo gestire gli inevitabili effetti della chiusura dei manicomi non approntando modalità e strutture alternative a ciò che è di tutta evidenza: e cioè che il disagio psichico si può affrontare anche fuori dalla galera coniugando terapia con la dignità del malato
Mao diceva che non importa se il gatto è bianco o nero : l’importante è che catturi il topo La chiusura dei manicomi ( il topo) è avvenuta Ora bisogna toglierlo dalla bocca del gatto ( Basaglia) per far sì che tutte le famiglie gravate di questo peso possano affrontare e programmare il loro futuro con maggiore serenità e senza il rischio di doversi leggere sul giornale.
Ma qui ritorniamo ad una nota assai dolente e cioè al ruolo della politica( di ogni colore) che nulla ha fatto sino ad ora con l’unico risultato di fare gravare sulle famiglie il peso della malattia Peso che il 90% di loro non è in grado di sopportare vuoi per ragioni culturali vuoi per carenze economiche
Il resto sono solo disquisizioni “intellettuali” e polemiche sterili che non portano a niente
La ringrazio d’aver fatto sfoggio del suo nozionismo un po’ sgrammaticato in risposta alla mia “disquisizione” (che, diversamente dalla sua perorazione, non porta a niente). Risponderei alla sua esperienza in prima persona con la mia, ma per principio non dedico troppo tempo a chi taccia coloro che hanno pareri diversi di fare “polemiche sterili”.
Il mio nozionismo sgrammaticato deriva esclusivamente dallo scrivere in coda in autostrada Non ho mai avuto velleità di scrittura, giornalistiche o di altro Gli interventi rimangono sterili e quindi le relative polemiche che generano, proporzionalmente alla effettiva capacità di modificare l’esistente Se non si riesce ad incidere sulla realtà che non ci piace tanto vale rifocalizzarsi sul proprio ombelico Almeno una parte di noi rimane appagata
Buone feste