Storia di cinque solitudini virili. Ugo (Gianni Cavina) è un conduttore di televendite squallide, non ha una lira ed è disprezzato dall’ex moglie e dai quattro figli; Lele (Alessandro Haber) scrive di cinema per un giornale, è bullizzato dalla redazione e pagato pochissimo; Stefano (George Eastman) gestisce una palestra, convive con una donna ma forse ha una cotta per un ragazzo che si allena da lui; Franco (Diego Abatantuono) è sposato infelicemente, conduce una catena di sale cinematografiche e fa lo splendido pur essendo perseguitato dai creditori. Nonostante il rancore di Franco per Ugo (una serie di flashback ne mostrerà il perché), la sera di Natale si trovano nella villa fuori Bologna di un’amica di Stefano, per una partita a poker assieme al cupo avvocato Santelia, un industriale ossessionato dalle donne e dalla propria bruttezza, il quale sarebbe disposto a farsi spennare pur di stare in compagnia e mostrarsi generoso; scopo del quartetto sarebbe ottenere i soldi che salverebbero la vita a Ugo e permetterebbero a Lele di dedicarsi alla scrittura di un libro su John Ford, ma la partita a cinque diventa un duello tra Franco e Santelia.

Nel recentissimo “Il Signor Diavolo”, il Maligno distruggeva una storia d’amicizia, quella fra i piccoli Carlo e Paolino. Nel 1986, Pupi Avati già si mostrava dolentemente attento al tema dell’amicizia: nell’horror del 2019, spezzata dall’intervento malevolo di un nemico esterno; in questa commedia grottesca di oltre trent’anni prima, sgretolata da avidità, meschinità più o meno piccine e smalignate più o meno gravi, gelosie.
Già a 48 anni, il cineasta bolognese era tenacemente legato al passato, al ricordo, alla nostalgia. Lo dichiarano già i titoli di coda, accompagnati da foto degli attori da ragazzi (Abatantuono, che sostituisce Lino Banfi è credibile nei panni di un uomo maturo, pur essendo 31enne: per i maschi d’oggi, piena adolescenza).
Il personaggio di Lele sembra una vendetta di Avati contro quei cinefili che definirà “la rovina del cinema” (“il cinefilo è una persona disturbata, che non ha parametri, che non sa comparare la realtà, che non è capace di uscire dalla sala cinematografica… quelli che vanno al cinema per mestiere sono per me le persone meno affidabili, alle quali a difficile chiedere cosa sia la realtà delle cose… quelli che scrivono di cinema non hanno sensibilità”). Il più piccino fra i cinque (Ugo almeno, con la sua disperazione cannibalesca, ha una dimensione che lo distingua), un punching-ball umano (per i colleghi che gli negano il panettone dovuto a tutti i dipendenti, per Franco che lo spinge a fare una sceneggiata che spezzi il ritmo e gli equilibri della partita): non nasconde nemmeno di essere contento che mentre lui gioca a carte, la fidanzata sia a letto con un aiuto-regista, perché così si guadagna una particina in un film.
Soltanto Stefano si comporta sempre civilmente: il solo dal fisico prestante, eppure quello della cui mascolinità gli altri dubitano; non è chiaro se partecipi all’inganno, rinuncia a guadagnare (è anche, a parte Santelia, il solo a non avere disperato bisogno di soldi) e fa il croupier: ma è anche, non fosse per la statura da gigante di Eastman (il genovese Luigi Fioramonti), il personaggio che si fa notare di meno.
Uomini eleganti e bolsi, che si dicono tutto, permettendosi anche insulti alla donna d’altri e affondi sugli altrui fiaschi; ma l’omosessualità resta da esorcizzare, si ha paura a nominarla apertamente; quando gli si rinfaccia che sta con “Manuela la culona, la troiona”, Lele guarda male Stefano, direbbe davanti a tutti quel che ha detto solo a Franco, ma per quanto sia offeso si rende conto che dargli del frocio davanti a tutti non si può, niente colpi sotto la cintola.
Tutte le loro paure e debolezze maschili sono riassunte, in chiave esasperata, da Santelia: disperatamente solo, frustrato perché tutt’altro che attraente, incapace di dialogare; e proprio il suo terrificante approccio con la donna (che, si scoprirà, è proprio “quella” donna) adocchiata nel ristorante della stazione, e la risposta mendace di lei, offrono l’interpretazione del personaggio (che sta andando alla partita di poker per, in fondo, prostituirsi) e di tutta la faccenda (menzogne su tutto, anche sulla propria identità).
La partita a poker si gioca al di fuori del tavolo: questione di bluff, segnali, interpretazioni, attenzione, spietatezza, garanzie, soldi. Un grande inganno che va molto oltre la perdita (consistente) di soldi: ci si bacia sulle guance quando scocca la mezzanotte di Natale, si abbraccia l’amico che si sta per colpire alle spalle.
Avati, regista cattolico che osa dichiararsi tale in un paese sempre più ammantato d’un laicismo intollerante, ambienta proprio nel momento della nascita del Redentore una storia di perdoni disattesi. Lo fa con una profondità e una sincerità che mancano al solito cinema natalizio ma laicista, che mette in scena Babbo Natale ma non Gesù Bambino, i buoni sentimenti ma non il Miracolo; per quelli che non ci credono, le melensaggini e per Avati che ci crede, un film anti-natalizio, velenoso e crudele (lascia subito sgomenti Ugo che si smarca da madre, ex moglie e figli per andare alla partita: senza di me state meglio, chiedete ai ragazzi – e quelli: sì, senza papà stiamo meglio).
Per i dettagli pokeristici, Avati si è avvalso della collaborazione di Giovanni Bruzzi: pittore, biscazziere e occultista.
Presentato (fra le polemiche per la decisione, a nostro parere legittima, di Gian Luigi Rondi di escludere “Velluto blu” di David Lynch) alla Mostra di Venezia del 1986 (in concorrenza con “Round Midnight” di Bertrand Tavernier, un film sulla grande passione di Avati: il jazz), “Regalo di Natale” vi fu acclamato, con tanto di Coppa Volpi all’intepretazione di Carlo delle Piane. Diego Abatantuono premiato ai Nastri d’Argento e, assieme alle musiche di Riz Ortolani e al suono di Raffaele De Luca, ai David di Donatello.