La furiosa lite andata in scena martedì sera al “San Paolo” di Napoli tra Roberto Mancini e Maurizio Sarri ha fatto rapidamente il giro del mondo. In palio c’era l’accesso alle semifinale di Coppa Italia, offuscato, però, dal rovente post-partita e dalle dichiarazioni del tecnico neroazzurro.
Un Mancini visibilmente scosso e provato ha accusato – davanti le telecamere della Rai – il collega di avergli proferito frasi di stampo razzista, omofobo e discriminatorio”. Sarri, imbarazzato e intristito per l’accaduto, ha preferito glissare, porgendo scuse pubbliche e private. E concludendo la sua arringa difensiva con un laconico: “Sono cose di campo che dovrebbero restare sul campo”.
Fin qui i fatti (raccontati in modo volutamente stringato), che esulano dal prato verde e lasciano in secondo piano il successo dell’Inter, reduce da 4 punti in 4 partite in campionato e sull’orlo di una piccola crisi di nervi. Quelli che sono partiti a Sarri, l’uomo perennemente in tuta e col pugno alzato scivolato sulla buccia di banana degli insulti omofobi, scanditi a chiare lettere dinanzi il rivale “inerme”.
Roberto Mancini, da sempre uomo mediatico ed abile nell’ingraziarsi le simpatie degli addetti ai lavori (il contrario, per intenderci, di Mazzarri) pur non nascondendo sentimenti e umori personali, è apparso poco coerente con alcuni suoi atteggiamenti passati; i suoi spintoni con Moyes (allora tecnico dell’Everton) quando allenava a Manchester e la “difesa d’ufficio” di Mihajlovic dopo le frasi poco concilianti su Vieira, infatti, rientrano – seppur in contesti e diciture diverse – in quelle “cose di campo” legate dal filo rosso del consociativismo e della tensione adrenalinica, che si intersecano in modo sempre più evidente con l’omertà pallonara. Ma siamo sicuri che possano esistere omissioni e/o tacite connivenze nell’era delle pay tv, del circo mediatico e delle sovraesposizioni mediatiche di tutto e tutti?
Maurizio Sarri ha sbagliato, facendosi trascinare dall’impeto e dalla foga. Lui, uomo da prima linea, elmetto in testa e fucile in spalla, questa volta ha sparato a salve. Per eccesso di genuinità e confidenza con il toscanaccio insito in lui. Si è persino permesso di rimarcare il fatto che, se proprio avesse voluto insultarlo, gli avrebbe dato del “democristiano”. Pensieri e parole che scavano nei pensieri neanche troppi reconditi dell’ex bancario divenuto icona pop del calcio italiano, un po’ Che Guevara un po’ Sacchi. Un rivoluzionario fiero rivale della deriva renziana del pd, studioso di schemi e tattiche e di aforismi di Bukowski, avanguardista della riscossa lanciata dal sindacato contro l’abrogazione dell’articolo 18. Al suo dirimpettaio, invece, la politica è sempre fregato il giusto. Mai nessun proclama, profilo basso e uso delle parole limitato agli aspetti squisitamente tecnici.
Da ieri, però, qualcosa cambierà. I riflettori verranno puntati non solo sul Mancini allenatore (bravo, si, ma capace con il Manchester City dei petrodollari di lasciare più rimpianti che titoli vinti) ma anche sull’uomo. State pur sicuri che il nostro calcio, ormai perso tra riforme bibliche annunciate e mai partorite, scandali passati sottotraccia e corruzioni dilaganti, dirigenti “preistorici” ed ataviche disfunzionalità, offrirà lo spunto ai suoi più esimi rappresentati di prendere posizioni forti e risolutive.
Detto questo, però, risparmiateci la storiella del politicamente corretto imposta a chiunque si opponga in qualche modo al pensiero unico della sinistra caviale e champagne. Sarri non è un razzista né un becero, come non lo sono Sacchi e Stefano Eranio, entrambi processati e condannati in contumacia dagli adepti del conformismo democratico. Cancellate le liste di proscrizione, rimuovete i patiboli. In fondo, mister Sarri l’ha ammesso in modo candido: “Non gli ho mica dato del democristiano”. Che in un mondo ipocrita e chiuso come quello del calcio, più che un insulto risulta un modo di essere. Uno stile di vita.