Illinois 2017: Earl Stone, stimato floricoltore quasi 90enne che ha sempre messo il lavoro prima della famiglia, è ridotto in bancarotta dalla concorrenza spietata del commercio su internet. Da dodici anni la famiglia lo ha allontanato per l’ennesima mancanza (non essere andato al matrimonio della figlia). In cerca di riscatto, e per pagare le nozze alla nipote – la sola parente che gli sia ancora affezionata – accetta di trasportare col suo pickup dei misteriosi carichi oltre frontiera.
Ispirato alla vicenda realmente accaduta di Leo Sharp, reduce della Campagna d’Italia nella IIa Guerra Mondiale (nel film, oltre al nome, gli si cambia cursus honorum: Earl è reduce della Guerra di Corea, come già il Walt Kowalski di Gran Torino), 90enne corriere (in gergo, mulo) della droga al soldo del cartello messicano per disperazione, braccato dall’agente della DEA Jeff More (nel film è rinominato “Colin Bates” e interpretato da Bradley Cooper, sempre più pupillo di Eastwood).
L’Academy, ormai ufficio stampa di Michelle Obama, non ha minimamente considerato questo film: escluso alle nomination. Sarà contenta Meryl Streep, la partner più ostile della carriera di Eastwood (l’abbraccio nella locandina de I ponti di Madison County è un montaggio: Clint stava cullando una figlia ancora piccola, che nella foto fu sostituita dalla zucca di Lady Tre Oscar): che queste kermesse restino sfilate di progressismo, dalle urlatissime banalità di Beyoncé ai manifesti generazionali di Taylor Swift. Bisogna lasciar tranquilla proprio quella pussy generation sbeffeggiata dal veterano del politicamente scorretto: e il film stesso è una burla nei loro confronti, perché sono loro il padre di famiglia che tiene moglie e figlia ferme nel deserto mentre cerca di connettersi a Google, e ancora loro sono il bullo che nel motel non riesce ad aggiustare il condizionatore perché sta attaccato allo smartphone; e quando gli si fa notare che si dice “nero”, e non “negro”, il Nostro con un grinzoso sorriso risponde: no.
I millennials sono però una generazione intollerante e rancorosa, che presenta il conto: Eastwood è lasciato ai margini dalla Hollywood dem, Earl paga caro il suo rifiuto di adeguarsi a internet; uno se la ride (premio più, premio meno…), l’altro no.
Quella di Sharp/Stone sarà un’America provincialotta, che resta esterefatta di fronte alle lesbiche in moto, che guarda male i messicani seduti alla tavola calda e li chiama “mangiafagioli”; ma siamo sicuri sia peggio di quella corretta, leccata, viziata, obnubilata, formattata della snowflake generation?
The Mule, racconto epico della vecchia America scorretta, è stato disdegnato dalla sinistra fighetta, e ha turbato la destra repubblicana: che eroe è, un corriere del narcotraffico? Non è una novità, Eastwood milita da repubblicano da oltre mezzo secolo (con buona pace della critica nostrana, che quando scoprì che il gigante californiano è bravo, intelligente e pure parecchio, cerco di appropriarsene: basta con gli strilli alla Pauline Kael, la si smetta di dargli del fascista, quando uscì il bellissimo Gran Torino Gianni Canova su “Duellanti” pretese di assolvere Eastwood dall’accusa – terrificante! – d’essere di destra – non sia mai!), pur essendo tesserato col Partito Libertario e avendo rivestita una carica pubblica (sindaco di Carmel) presentandosi con una lista civica; e non è passata convention nella quale non facesse infuriare gli ortodossi del partito. Troppo disincantato, troppo aggressivo, troppo riflessivo, e ha troppo da raccontare. Reagan aveva gioco facile a usare Rambo come arma retorica: così perfetto, così efficace, così matematico. Per fare un esempio d’eroe americano non poteva andar bene già l’ispettore Callahan, che a dispetto della spietata precisione con cui faceva fuori i criminali restava un disadattato, sempre in polemica con ogni autorità che incontrava. Che paladino può allora essere un vecchietto ingobbito che si fa togliere il saluto dalla figlia, accetta per soldi di trasportare un carico di cui non sa niente, e quando scopre che si tratta di droga fa spallucce e coi proventi si compra un bracciale dorato?
Un’etica comunque c’è: prima di tutto, la gentilezza. La carriera da corriere di Earl comincia trionfale, perché i manovali del narcotraffico sono gentili, gli si affezionano, lo chiamano tata (“nonno”), apprezzano che si preoccupi dei loro problemi. Sarà una coincidenza, ma quando un cambio nella gestione nel traffico fa sì che sia affidato a colleghi meno camerateschi, cominciano i problemi. Earl è ormai consapevole della natura del traffico, ma il lato umano gli importa eccome: e quando Julio nega di essergli amico, gli spezza il cuore – al suo compagno di viaggio tiene, anche se è un criminale.
Prima di tutto, l’affetto: la sola cosa importante. Earl ripensa ai dodici anni passati dallo sgarbo fatale alla figlia (interpretata da Alison Eastwood, cui Clint è padre nella vita reale) e affranto dice: dodici anni sprecati. Non pensa a come li ha vissuti: pensa che semplicemente non ci sono stati.
Un’altra maschera immersa nell’ombra. Nessun personaggio di Clint Eastwood è limpido, e nemmeno la serenità ch’egli stesso dice d’aver raggiunta nella vecchiaia li ha rischiarati. Earl Stone è un riassunto, intenerito, di alcuni fra loro: si fa odiare da moglie e figlia (Million Dollar Baby e Potere Assoluto), è un criminale (Una calibro 20 per lo specialista; Assassinio sull’Eiger; Gli Spietati; Potere Assoluto: ma quelli erano delinquenti fatti e finiti, qui si improvvisa tale), viziato e puttaniere (Corda tesa, Fino a prova contraria), anaffettivo pentito (Gunny, Gran Torino), perseguitato dal passato (tutti i film almeno da Il Cavaliere Pallido in poi).
Rivisitazione dei propri personaggi, The Mule è un omaggio a se stesso: stanno ad attestarlo due auto-citazioni, gli hamburger Gunny’s e il sibilato “…tu!” alla resa dei conti tra sfidanti, come ne Il Cavaliere Pallido (ma se nel bel western fantasmagorico del 1985 la questione era d’odio, tra il reduce di migliaia di viaggi e l’agente speciale ci sono comprensione e simpatia reciproche), e l’indulgenza verso la passione canterina (in più passaggi è la voce dello stesso Clint – che nel parlato si avvale ancora del suo storico e più caratteristico doppiatore italiano, Michele Kalamera – ad accompagnare le canzoni all’autoradio).
Clint Eastwood è al di là del bene e del male. Non basta una cifosi tragicamente accentuata a piegarlo, né il torace incavato e le braccia rinsecchite a renderlo vulnerabile. Vedendo i suoi occhi aperti quel che basta per fissare l’interlocutore, le solite smorfie a denti serrati, il suo volto solcato più del Grand Canyon, si ignora deliberatamente che i suoi inseguitori siano i “buoni”, e si fa il tifo per lui, sperando che anche l’anti-eroe di The Mule abbia un colpo di genio e se la cavi, per proseguire il suo viaggio di nuove scoperte (non è tardi… si veda Il Posto delle Fragole) e nuove avventure, all’inseguimento del tempo perduto.