Sono nato nel 1987: per un tifoso del Milan, un sincronismo terribile, dato che ho perso il periodo in cui la squadra rossonera è stata la più forte mai vista – sarò forse un po’ tardo, ma fino almeno al 1994 non mi sono accorto di granché (non bastandomi l’aver mancato per un attimo l’era Sacchi e il meglio dell’era Capello, per snobismo post-adolescenziale ho poi smesso di seguire il calcio, perdendomi la possibilità di recuperare che l’era Ancellotti mi offriva; dopo di che sono diventato tifoso della Roma, un po’ per affetto nei confronti dell’Urbe, un po’ per autolesionismo).
Non ero ancora nato quando Berlusconi comprò il Milan, avevo un anno quando i Diavoli vinsero un attesissimo scudetto, l’11°, surclassando il Napoli di Maradona (1987/88), ne avevo due quando vinsero la Coppa Campioni al Camp Nou di Barcellona (1988/89, con un 4-0 in finale allo Steaua Bucarest immediatamente successivo a un terrificante 5-0 rifilato, nella semifinale di ritorno a San Siro, al pur poderoso Real Madrid). Ne avevo addirittura sette, e questo forse dimostra che non sono troppo sveglio, quando il Milan allenato non più dal mago Arrigo Sacchi, ma dall’almeno altrettanto formidabile Fabio Capello (di fede interista l’uno e juventina l’altro), schiantò ad Atene, con un’altra quaterna (impreziosita da un miracolo balistico di Savicevic), ancor più clamorosa perché meno attesa (era un Milan rimaneggiato, e l’allenatore avversario, il grande Johann Crujiff, si diceva certo di vincere facilmente), il Barcellona di Romario e Stoickov, incapaci di superare Seba Rossi, mentre dalla parte opposta Massaro e Desailly facevano un po’ quel che pareva loro. Ebbi invece coscienza della finale viennese persa l’anno dopo contro l’Ajax. Come dice un regista: facciamoci del male.
Non ero il solo milanista “assente”. Il Milan si presentò, all’appuntamento greco del 18 maggio 1994, assai rimaneggiato. Quella della stagione ’93-’94 era una squadra fortissima, ma più fragile di quella della gestione Sacchi: più fallibile, e lo dimostra il fatto che quella stagione il Milan sì, vinse lo scudetto più “essenziale” (solo 36 gol in 34 partite; l’anno prima furono 65, ma Van Basten poteva ancora giocare) della sua storia: ma gettò alle ortiche la Supercoppa Intercontinentale (2-3 contro il San Paolo di Cerezo) e dopo il vantaggio dell’andata, perse la Supercoppa Europea contro il Parma (allora, va detto, una delle squadre più forti del continente); vinse però, maluccio, la Supercoppa Italiana, a New York, contro il Torino. In Coppa Italia uscì agli ottavi, col Piacenza.
Una squadra che ufficialmente annoverava ancora Van Basten, il quale in questa stagione non scese mai in campo, essendo la famosa caviglia ormai martoriata. Gli altri due olandesi, Gullit e Rijkard, si erano trasferiti a Sampdoria e Ajax. Gianluigi Lentini, un acquisto costato a Berlusconi tanti soldi e un processo, era prigioniero degli stravizi e del ricordo d’un incidente automobilistico; comparse fortissime come il danese Brian Laudrup e il rumeno Florin Raducioiu non riuscivano a esprimersi. La forza di quel Milan stava nella difesa, tanto difficilmente valicabile da far sì che un portiere traballante come Rossi stabilisse il record d’imbattibilità (929 minuti, battendo i 903’ di Zoff; sarà superato da Buffon jr. con 974’). Quel che preoccupava il popolo milanista (ma non Capello, che in silenzio preparava un capolavoro) era proprio questo reparto, decimato: nella semifinale (in quell’edizione, uno scontro solo), il vecchio Milan aveva battuto il poco blasonato ma arrembante Monaco (la squadra del principato, non il tedesco Bayern) con un 3 a 0 (Desailly, Albertini, Massaro), nonostante l’inferiorità numerica per oltre metà della partita; ma Costacurta si era fatto appunto espellere, e il già diffidato Baresi si era fatto ammonire per un calcione rifilato al tedesco ex interista Jurgen “pantegana bionda” Klinsmann (stando alla leggenda, il rumore della pedata sarebbe risuonato fino a metà degli spalti). Nonostante queste due gravi assenze per squalifica al turno successivo, Capello – noto, oltre che per i successi, per il carattere forte – non si scompose, e alle sbruffonate del campionissimo olandese allora allenatore del Barcellona rispose gettando le basi per la roboante vittoria ateniese.
Il destino cinico e baro riserverà un’altra finale, a Franco Baresi, in quello stesso anno: d’estate la nazionale italiana arrivò alla finale dei Mondiali. USA ’94, un’edizione resa bellissima, da scontri micidiali come Romania-Argentina 3-2 agli ottavi, e dalla sorprendente Bulgaria giunto sino alla semifinale (eliminata proprio dall’Italia); bruttissima, dalle sceneggiate di Maradona e dall’afa in cui si giocavano le partite con nazionali europee – per sfruttarne il potenziale televisivo, si adattava l’orario di gioco alla prima serata del fuso orario europeo: così la finale Italia-Brasile (non curandosi del fatto che il pubblico brasiliano è molto più numeroso di quello italiano) fu giocata quando in California era mezzogiorno, e il Rose Bowl di Pasadena un forno assolato. Una partita lentissima, che vide i tempi supplementari chiudersi sullo 0-0, e l’erroraccio di Roberto Baggio consegnare il trofeo al Brasile, che vinsero per tre rigori a due. Il primo rigore italiano fu tirato, e sbagliato, da Franco Baresi, che lasciò il campo in lacrime: eppure, la sua fu una prova eroica. Perché giocò 120’ minuti abbondanti, nonostante un menisco ancora lesionato da un recente infortunio; e perché, pur essendo fra i più anziani in campo, fu quello che meno mostrò di patire il terribile caldo californiano. A 34 anni, con una gamba rovinata, per oltre due ore impedì qualsiasi iniziativa al roboante attacco brasiliano.
Eppure Franco Baresi era un bravo rigorista: tanto da essere stato capocannoniere di un’edizione (1989/90) della Coppa Italia: 4 rigori (tre in una partita sola, finita 6-0 contro il Messina); il quarto, fu una figuraccia (il rigore fu ottenuto dal Milan in seguito alla mancata restituzione d’un pallone buttato fuori dal campo da Stromberg, per permettere i soccorsi a Borgonovo), “punita” in finale dalla Juventus.
Fu un po’ come quel che successe a Simon Le Bon, il cantante dei Duran Duran: non avrà avuto problemi (nonostante la sua vocalità un po’ macchinosa), in concerti di routine, a intonare “A View To A Kill”, la canzone composta nel 1985 per “Bersaglio mobile”: ma quando, con l’orrendo Live Aid del medesimo anno, dovette eseguirla in mondovisione, si produsse in una stonatura epocale, uno “jodel” rimasto leggendario. Entrambi avrebbero volentieri preferito sbagliare in un concerto e una partita ordinari, e non scivolare all’occasione più importante.
Fu l’inizio della fine. Nel campionato successivo, il 1994/95, il Milan arrivò quarto in campionato, perse la Coppa dei Campioni di misura in finale contro l’Ajax, ma vinse Supercoppa Italiana ed Europea. Nel 1995/96, l’ultimo scudetto dell’era Capello, il quindicesimo rossonero: e la prima partita di campionato, contro un Padova più ostico del previsto, fu risolta proprio da Baresi. Non su rigore: verso la fine del primo tempo, un contropiede risolto da centravanti esperto, controllando i rimbalzi del pallone e trafiggendo il portiere in uscita: 1-2.
L’anno dopo cominciò il tracollo: ci si affida a un mago uruguaiano, Oscar Tabarez, ma i risultati sono annichilenti. Il Milan degli Invincibili è finito, il diavolo è stanco: tornerà, prima di Natale (pensare che un decennio prima si diceva proprio di lui che non avrebbe mangiato il panettone a Milano), Sacchi, senza poter risolvere nulla. Addirittura il Milan subirà l’umiliazione di un 1-6 casalingo contro la poderosa Juventus di Lippi: e si assisterà a un’immagine surreale, quando un Christian Vieri poco più che esordiente segnerà uno dei suoi due gol superando in velocità proprio Baresi. Il quale capisce che è tempo di salutare: e la sua ultima partita ufficiale sarà una sconfitta, 0-1 contro il Cagliari, a San Siro, degno sigillo di una delle stagioni più brutte della storia del Milan (11° posto, eliminazione immediata in Champions League).
Conclusione degna anche del rapporto con Sacchi. Portato al Milan nel 1987 da Berlusconi, incantato dal piccolo prodigio del suo Parma (portato dalla serie C alla B), questi si era reso subito antipatico con i giocatori milanisti, imponendo loro di seguire pedissequamente l’esempio dei suoi calciatori ducali. Fece scandalo il suo consiglio, a Baresi (allora quasi privo di palmares, con anche due stagioni in B alle spalle, ma universalmente riconosciuto come il difensore libero più forte al mondo insieme a Scirea) d’imitare Signorini, libero parmense. Le rimostranze di Baresi e Van Basten convinceranno Berlusconi a sbarazzarsi dell’Arrigo nazionale, nel ’91, dopo quattro anni di trofei sollevati col sorriso tirato: loro malgrado, il re dei commissari tecnici e l’imperatore (il primo soprannome, “Piscinin”, fu presto sostituito da “Kaiser Franz”) dei difensori si troveranno ancora sulla breccia, nel mondiale del ’94 e nel campionato ’96-’97.
Il post-carriera non riserverà grandi trionfi, al “kaiser” bresciano. Coinvolto dalla moglie in una compravendita di quadri falsi, si troverà relegato dalla società in compiti di mera rappresentanza: dalla carica di presidente onorario (poi assegnata a Berlusconi, che la rifiuterà) a quella di “brand ambassador”, più calzante alle esigenze dei nuovi proprietari del Milan, Scaroni e il fondo Elliott di Singer detto “l’avvoltoio di New York”, interessati più al bilancio aziendale che ai trascorsi rossoneri.
Già in carriera qualche delusione non mancò: oltre alla Coppa del Mondo con la nazionale persa ai rigori, e all’ultima stagione rossonera foriera di umiliazioni, un Pallone d’Oro mancato: quello del 1989, alle cui votazioni Baresi si trovò secondo, alle spalle di Van Basten, compagno di squadra (e di contrasti con Sacchi), che ricevette così il secondo dei suoi tre premi di France Football (per il secondo anno consecutivo, il podio era tutto rossonero: Van Basten-Gullit-Rijkard nell’88, Van Basten-Baresi-Rijkard nell’89). Berlusconi non trovò giusto che il difensore più forte della squadra più forte di sempre pagasse la predilezione che il premio individuale più prestigioso nel mondo del calcio riserva agli attaccanti, e gli assegnò, alla partita per il suo addio al calcio giocato (ottobre ’97, glorie del Milan contro “All Stars”, 5-1), un pallone d’oro “extra”.
Seguirà il ritiro del numero 6: a significare che nessun altro giocatore potrà indossare una maglia rossonera col suo stesso numero. Onore poi riconosciuto dalla Roma a Totti, col ritiro del numero 10.
Non era cominciata come questione di “fede”: entrambi i fratelli, Franchino e Giuseppe (maggiore di due anni) erano stati presentati, poco più che bambini, alle giovanili dell’Inter. Beppe, tifoso milanista, sarà ammesso, e diventerà una bandiera dell’Inter, salvo concludere la carriera da calciatore con due anni al Modena in B (tornerà nerazzurro da allenatore delle giovanili). Franco, tifoso interista, sarà scartato perché gracile; sarà accolto col Milan, e nonostante il “peccato originale”, non avrà problemi, come Sacchi, a tingere il cuore di rossonero. Tanto da restare, nell’immaginario di tifosi e appassionati di calcio, la bandiera milanista “par excellence”: e col più giovane compagno di reparto Paolo Maldini (figlio del grande Cesare), l’ultimo giocatore milanista a non cambiare mai casacca, alternandola soltanto a quella azzurra della nazionale. Al loro stesso livello agonistico, pur avendo vinto molto meno per una precisa scelta di cuore, Francesco Totti: alla Roma fin da bambino, e rimasto tale per tutta la carriera, nonostante proposte da squadre più blasonate, più competitive e con monte-ingaggi più sostanziosi (non si nega che un fuoriclasse come Totti sia strapagato, ma resta impressionante il rifiuto opposto dal Pupone alle tentazioni del Real Madrid: sicurezza di vincere molti più trofei, e uno stipendio di almeno tre volte superiore a quello romanista, cui si aggiungano introiti pubblicitari spropositati: e tutto per restare romano e romanista).
Sarà solo calcio, saranno solo calciatori. Ma il calcio è un fenomeno di costume ormai importantissimo (tanto più in Italia): e potrà sembrare una sciocchezza, ma un Baresi (e un Totti) è stato un’eccellenza italiana a livello mondiale, in un ambito che potrà sembrare una stupidaggine, ma attira tanta attenzione. E lo è stato in una stagione nella quale l’Italia dominava, almeno in quell’ambito, a livello europeo (e perciò mondiale: il calcio è soprattutto una questione europea, con la concorrenza sudamericana). Tra gli anni ’80 e ’90, quando ogni squadra aveva soltanto due (poi tre) giocatori stranieri, e l’allenatore era raramente tale, le competizioni internazionali vedevano le squadre italiane rincorse da tutte le altre.
Il calcio del Duemila è brutto, bruttissimo. Pochissime squadre spadroneggiano le competizioni, in virtù non della qualità ma di mezzi finanziari incommensurabili rispetto anche a tante “big”; presidenti, allenatori e giocatori cambiano in continuazione e arrivano da ogni parte del mondo, senza avere un minimo legame con la città delle loro squadre e tanto meno con i tifosi, bistrattati con prezzi proibitivi dei biglietti, orari assurdi, prestazioni sportive imbarazzanti, a volte persino insulti da calciatori e dirigenti. Non si pretende di far passare i giocatori “di una volta” per missionari mossi dal solo amore per la città e i tifosi: ma un minimo di romanticismo c’era. Non si sostiene che Baresi, Totti, Maradona, Platini e Del Piero abbiano fatto la storia: ma quando il calcio era a dimensione di tifoso (qual è la differenza tra il calcio e sport meno seguiti? che attira più pubblico, il resto consegue soltanto da questo fattore), era anche grazie a questi personaggi che il calcio era un grande spettacolo popolare.
Ora ci sono i biglietti per i seggiolini lerci in piccionaia da 50 euro in su per far contenti Cristiano Ronaldo, gli sceicchi e i fondi speculativi.