Il primo film del 2019 che ho visto è stato “Suspiria”: remake di Luca Guadagnino dall’epocale horror di Dario Argento. Due registi da cui sono distante, ma ho trovato il film (diversissimo dall’originale) bellissimo.
Subito dopo, una commedia italiana adorabile: “Non ci resta che il crimine”. Ero in sala con Cristina Parodi e Giorgio Gori, ma non ho fatto il terzo incomodo e non ci siamo scambiati pareri. Provo più affetto per Clint Eastwood che per tanti dei miei parenti, ma da qualche anno faceva cose deludenti. “The Mule – Il corriere” gli ha fatto perdonare tutti i precedenti inciampi. “La Favorita” è bello, ma avrebbe potuto essere bellissimo. Mi ha fatto pensare a “I misteri del giardino di Compton House”: e poco dopo è stato distribuito un documentario su Peter Greenaway realizzato dalla moglie e dalla figlia (“L’alfabeto di Peter Greenaway”), davvero pregevole.
“Dumbo”: ho tediato i lettori di con uno sproloquio sul fatto che la Disney sta tergiversando in preda alla mancanza d’idee nuove (per non essere da meno della major, l’ho ripetuto per “Il re leone” e “Frozen II”), ma m’interessava soltanto vedere Eva Green. La quale ha rinunciato a interpretare Virginia Woolf per questa versione live-action di un classico Disney… vedremo se è stata una scelta saggia. Forse no, il nuovo “Dumbo” è mediocre.

“Highwaymen”: un robusto racconto dall’America profonda, con Kevin Costner nel ruolo di Frank Hamer, il texas ranger che represse Bonnie & Clyde.
A maggio, quello che è stato forse il migliore tra i film del 2019 che ho visto: “I figli del Fiume Giallo”, una potentissima epopea cinese dell’ottimo Jia Zhangke, sorretto da una protagonista splendida, Zhao Tao.
Ci voleva una delle storie più brutte d’Italia per farmi apprezzare un film di Bellocchio. “Il traditore”, con Favino nella parte di Buscetta, è davvero un gran film, e spero sia la volta che gli Oscar (che pure hanno smesso da parecchio di guardare alla qualità) premino un’opera italiana di valore (assai migliore di “Mediterraneo” e “La vita è bella”).
Carini due film indipendenti: una commedia cipriota, “Torna a casa, Jimi!” e un’elegia sui malandati cowboy di oggi, “The Rider” (uscito in Italia con tre anni di ritardo), diretta da una ragazza cinese che ora fa i film degli Avenger. “Midsommar – Il villaggio dei dannati” è bello, serio, molto intelligente (Ari Aster conosce il suo mestiere) ma spesso detestabile. Un horror molto migliore: non ho mai frequentato Pupi Avati, ma sono corso a vedere “Il Signor Diavolo” e l’ho trovato una piccola meraviglia.
La settimana dopo ho visto “Il re leone” in versione computerizzata: durante le prime scene se ne ammira la perizia tecnica, poi la mancanza d’ispirazione diventa un problema. “Quel giorno d’estate” carino, triste ma con un barlume di speranza.
Annunciato come fosse una rivelazione, “Ad Astra” mi ha un poco costernato. Quasi due ore di agorafobia, terminati con un brutto monologo che, come un altro film (“Two Lovers”) dello stesso regista (James Gray), mi ha fatto pensare alla canzone di Povia sui piccioni (“il segreto è volare basso”).
“Frozen II” è la replica in tono minore del suo predecessore. Divertente. Sono stato contento per “L’ufficiale e la spia”: perché Roman Polanski, dopo tre film non all’altezza, è tornato a fare grande cinema.
Mi perdoni Scorsese, ma non ho trovato tre ore per guardare “The Irishman”.Ho rifiutato di cercarle per l’ultimo Tarantino; sospetto di poter sopravvivere sia senza l’ennesimo tributo alla sua stessa cinefilia, sia senza il “Joker” di Todd Phillips e Joaquin Phoenix.
Prime visioni di film distribuiti in altri anni: “Wind Chill – Ghiaccio rosso sangue” – ha il difetto dei film sperimentali basati su di una trovata (qui: due sconosciuti che si devono alleare in una situazione claustrofobica), esaurita quella il gioco mostra la corda. “Venere in pelliccia” – Polanski che per l’ennesima volta spoglia la moglie, Amalric che da gentiluomo si frena per non farla sfigurare troppo (invano). Nulla più. “Fiori di cactus” – bellino, la coppia matura Bergman-Matthau schiaccia i due giovanotti. “Zero Dark Thirty” – potente, sobrio, elegante, scabro, preciso. Kathryn Bigelow che dirige Jessica Chastain: qualità elevatissima.
La sera prima di intervistare Pupi Avati, ho visto il capolavoro col quale ha gettato le basi del gotico padano, “La casa dalle finestre che ridono”: un’opera di genio (e nei suoi altri horror ho trovato vari richiami). Il giorno dopo sono stato la mattina, alla mostra dei Musei Capitolini su Luca Signorelli: in locandina, il suo San Sebastiano; la sera, ho visto un’amica di famiglia che di mestiere fa la restauratrice. Questi paralleli con l’opus magnum avatiano mi hanno inquietato, ma la signora non è ancora incappata in seguaci di Buono Legnani.
Siamo stati a una serata in onore di Luciano Salce, alfiere di un’Italia che ancora faceva grande cinema. “Coco”: quanto è bello, adorabile, divertente, intelligente. Meraviglioso.
Ancora di Avati: “L’arcano incantatore” e “Zeder”: sottovalutati. Il primo è più debole (prigioniero di un’idea sofisticata, penalizzato da un audio scadente e dalla sproporzione fra i due protagonisti: Cecchi annulla Dionisi – ma in un’ora e mezza ha più intelligenza e immagini affascinanti di tanti horror più sontuosi e più prolissi), ma mi è stato più simpatico; senza nulla togliere allo splendore d’un film di zombie presentato come fosse un’americanata, e girato a Milano Marittima.

Sto poco attento ai telefilm. Ho recuperata la prima stagione di “Stranger Things”: tante belle idee, però a metà mi sono reso conto che non m’interessava. Colpa mia. Il canale tv Giallo sta proponendo una minuscola serie irlandese (tre stagioni da tre episodi ciascuno), “Jack Taylor”: un bravo caratterista (Iain Glen) interpreta un Marlowe di provincia. La prima puntata era sciatta, poi il telefilm è cresciuto di carattere. Ho visto stralci di due fiction RAI, “Tutto può succedere” e “Un passo dal cielo”. La prima era peggiore della seconda, che è terribile.
A proposito di televisione: sono un convinto ammiratore del reality show “Il collegio”, giunto alla quarta edizione, e ritengo che il suo allarme sulla questione educativa vada amplificato. Allarmante mi sembra anche “Il castello delle cerimonie”, spaccato compiaciuto e involontariamente auto-razzista della provincia napoletana più disagiata.
Da anni ho molta simpatia per “Bake Off”, sia per la verve dei conduttori che per i personaggi che si scoprono fra alcuni protagonisti. Trovavo demenziale “Cortesie per gli ospiti”, e il suo principio: tre cialtroni si fanno ospitare da due coppie, scroccano un pranzo e pontificano su come sono stati serviti. Ora mi sta molto simpatico, anche perché dei tre esperti uno (il cuoco) sa quel che dice, e gli altri due (una esperta di bon ton e un arredatore d’interni) sono tanto fuori dal mondo da diventare divertenti. Però non li ospiterei mai (e loro non si farebbero mai ospitare da me). È comunque uno spaccato del peggior mondo liberale: alcune coppie sono simpaticissime, ma per lo più si tratta di fighetti che navigano nell’oro facendo dei non-lavori (food-blogger, fashion-blogger, travel-blogger, life-coach, influencer…). Roba che fa diventare comunista.
Sono stato una volta sola a teatro, per “L’esorcista” a teatro, e con tutte le sue ingenuità (e qualche sciatteria) l’ho trovato molto carino (qualche sera dopo ho rivisto il film, e l’ho trovato più stupido delle altre volte – dopo di che ho sognato che William Friedkin mi faceva girare un film con dei vampiri, senza avvisarmi che non erano attori…).
A proposito di film che ho rivisto: il migliore è senz’altro “Picnic a Hanging Rock” (Peter Weir 1975 – ho anche comprato una nuova edizione speciale, in cofanetto – non potevo vivere pensando d’averla lasciata sullo scaffale). La sera prima ho rivisto un altro horror anomalo, “L’inquilino del terzo piano” (Roman Polanski 1976), che ammiravo come il suo autore; stavolta ci ho trovato poco d’entusiasmante (ma la scena della testa che rimbalza in cortile mi ha perseguitato per qualche notte).
Dopo il remake di Guadagnino, ho rivisto “Suspiria” (1977) di Dario Argento: di gran fascino il finale, ma il resto è soltanto un ingegnoso bagno di sangue. Mesi dopo ho rivisto “Phenomena” (1985) e “Profondo rosso” (1975); rispetto alle precedenti visioni, ho svalutato il primo e rivalutato il secondo, ma resto un detrattore di Argento (non che gliene possa fregare di meno). Anche questo anno ho rivisto “Blade Runner” (Ridley Scott 1982) ed “Excalibur” (John Boorman 1981). Ogni volta mi chiedo come ho fatto a stare dei mesi senza guardarli.
“Ladyhawke” (mandato in onda, purtroppo, in morte di Rutger Hauer): ha la colonna sonora e i titoli di testa più inopportuni di sempre, ma è così carino (e Hauer detta legge). Sono riuscito a guardare “Lawrence d’Arabia” (David Lean 1962) senza pensare che è storicamente inattendibile, e finalmente mi sono reso conto di quanto sia bello. Ad Halloween ho rivisto “Nightmare Before Christmas” (Henry Selick 1993), che non guardavo da anni. Mai più senza.
Sono ancora sgomento per quanto è struggente “Yakuza” (Sidney Pollack 1975), elegia d’un mondo perduto, e di un modo d’essere uomo che il mondo liberale ha soppresso. Una volta c’erano Robert Mitchum e i samurai col loro codice d’onore, oggi ci sono gli hipster delicatini col loro nichilismo straccione.
“Cobra” (George Pan Cosmatos 1986): un poliziesco che alterna raccapriccio e ilarità involontaria, con Stallone che a volte fa la parodia di se stesso e altre è (purtroppo) convinto di quel che fa. “Misery non deve morire” (Rob Reiner 1990): molto semplicemente, l’interpretazione di Kathy Bates è da antologia.