Dani è una studentessa americana di psicologia, fidanzata con Christian, egoista e ottuso dottorando in antropologia. Christian e due compagni di studi, mediocri e qualunquisti come lui, sono invitati dallo svedese Pelle a visitare la comunità da cui proviene: la Harga, in occasione del Calendimaggio. L’accoglienza iniziale fa credere loro d’essere ospiti d’una comunità paciosa e stucchevole come gli Hobbit: presto cominceranno a ricredersi.

Ari Aster è un giovanissimo regista ebreo, cresciuto a New York fra artisti, cultore fanatico di cinema dell’orrore e convintissimo che non esista nulla di peggio della famiglia. Si era segnalato nel 2011 con un cortometraggio annichilente, The Strange Thing About the Johnsons, storiaccia d’un ragazzo d’una famiglia di colore in cui il figlio abusa sessualmente del padre, e nel 2018 con Hereditary, nuova pietra miliare horror, con Toni Collette e Gabriel Byrne genitori d’una famiglia inconsapevolmente votata al culto di Paimon, re infernale.
Quello di Aster è un cinema del terrore colto, lontano dagli stereotipi che per anni hanno ridotto il genere a un’accozzaglia di banalità e “jump-scare” che se a volte fanno sobbalzare, mai riescono a inquietare. Pur non disdegnando la macelleria, Aster sa che ciò che fa paura è la situazione, la vicenda; quel che si racconta, e soprattutto si evoca, prima ancora di quel che si mostra. Rosemary’s Baby, senza mostrare una sola goccia di sangue, spaventa più di tutti i Saw che si possano girare, proprio perché insinua, allude, lascia sospettare (ed è la storia dell’avvento dell’Anticristo, non d’un maniaco qualsiasi). Le scene truci avvengono fuori scena: e per lo spettatore, immaginarle è più terribile, di vederle – possono essere molto peggio di quel che si sarebbe mostrato. Il che è anche rispettoso dell’intelligenza dello spettatore – come nei migliori film di Clint Eastwood: sarebbe stato petulante, dire cosa è successo fra il Predicatore e il capo dei pistoleri in Il Cavaliere Pallido (e si capisce comunque benissimo, basta contare le cicatrici), o perché la figlia di Frankie non risponde alle lettere in Million Dollar Baby. Possiamo immaginare, mica abbiamo bisogno della guida per non smarrirci fra due intrecci.
Midsommar (accompagnato, in edizione italiana, dall’immancabile sottotitolo stupido: “il villaggio dei dannati”) è una piccola rivalsa, contro il vizio americano del tutto-e-subito.
È, appunto, un film dell’orrore europeo: girato da una piccola casa di produzione statunitense, la A24 (che proprio con Hereditary ha registrato il suo massimo incasso finora), con location in Ungheria, fatta passare per ambientazione scandinava; ma tenendosi alla larga dai semplicismi della recente tendenza horror americana. Non c’è suspence (il ritmo è comunque vivace): non ci si chiede come andrà a finire, chi sopravviverà o chi no, se qualcuno avrà la meglio; piuttosto, ci si lascia raccontare. Il piglio è quasi documentaristico, con interesse per l’ambientazione, il contesto: non ci sono personaggi, le storie di sottofondo spariscono, c’è soltanto un fondale immobile sul quale i cultisti svolgono i propri ruoli. I personaggi americani si illudono di poter fare qualcosa, di agire, di avere una storia: invece, la subiranno.
Quando arrivano è già tutto stabilito, disegnato, e il sorridente Pelle glielo annuncia (come mai ha accettato con tanta sportività che…?): ma non lo capiscono questi arroganti ragazzotti, coi loro fisici pasciuti e le loro facce anonime (quanti sosia di Christian e Mark si vedono in un qualsiasi telefilm e in qualsiasi università?); credono di poter studiare, analizzare, scrivere appunti, persino fotografare (col flash, che abominio), con l’arroganza dei positivisti che guardano dall’alto in basso l’oggetto dei loro studi (non rendendosi conto che questo è invece un soggetto, e quasi sempre più in gamba di loro).
L’unica personalità, fra i personaggi “made in USA”, è Dani: e anche lei non ha scelta, deve lasciarsi trascinare dalla sistematicità dei riti (che, ripeteva Eliade, devono essere sempre quelli, per ribadire la situazione primordiale, e così tornare allo stato felice del mondo, “in illo tempore…”). Però li capisce (e, in una scena molto bella, ne comprende immediatamente, istintivamente, il linguaggio) e vi si adegua.
Tutt’attorno, lo scontro fra due staticità. Christian, Mark e Josh (il solo che abbia qualcosa da dire, il solo che riesca a parlare di correttezza) sono ragazzi qualunque della Generazione X, fatti con lo stampino: studenti senza cultura, in cerca di relazioni disimpegnate, fighetti senza stile, maschi che quando una ragazza entra nella stanza non solo non puliscono: nemmeno si alzano dal divano, erotomani anaffettivi (figli d’un pensiero unico che ha svuotato deprivato l’Eros dell’amore, dell’affetto, del valore dell’Altro, dell’impegno e dei sacrifici per l’amato: i rapporti sessuali della Generazione X sono più tristi della masturbazione, perché il “partner” c’è, ma lo si ignora deliberatamente), sagome inespressive fisse davanti al proprio riflesso. A fronte la comunità, o tribù, o famiglia della Harga: nessuna personalità, ognuno si identifica col proprio ruolo, con le proprie mansioni, prestabiliti e immutabili da secoli, senza scampo.
Aster ribadisce la sua visione disperante della famiglia (quella di Dani è distrutta, e il personaggio più nascostamente inquietante è Pelle, che ribadisce il suo entusiasmo per quella che è diventata la sua “famiglia”), salvo confrontarla con qualcosa di peggio. C’è un compiacimento sadico, nell’intrappolare questi ragazzotti senza arte né parte nelle grinfie dei raffinati cultisti; che possono sopraffarli senza problemi non soltanto grazie alla loro terrificante esperienza in tecniche di macelleria, ma perché hanno due forze che quegli americani qualunque non hanno: il dialogo, intenso e costante, col sacro; e i legami personali, che quei maschietti tutti ormone e niente cuore considerano pesi, ammennicoli, relitti d’un passato che li investirà.
La risposta migliore al loro cinismo senza filosofia sarà l’inquietante (seppur prevedibile, ed è comunque un’autocitazione, da Hereditary) sorriso nell’ultima inquadratura: e qualche spettatore potrà condividerlo.
Ari Aster racconta due orrori (la tradizione cruenta dal passato, e il nulla che avanza del presente), e lo fa bene. Il film sembra originale perché, nel panorama horror degli ultimi decenni, fa macchia; ma ha debiti pesanti con il predecessore, Hereditary (la stessa maledizione per via dinastica, la stessa invisibilità del male) e soprattutto verso una piccola meraviglia obliata del 1973, l’anno dell’Esorcista (salvo quando ne è stato tratto un remake con Nicolas Cage, piccolo oggetto di culto per cinefili trash): The Wicker Man, scritto da Anthony Shaffer per la regia di Robin Hardy, con Christopher Lee in dolcevita giallo canarino e capelli lunghi nel ruolo di Lord Summerisle, sacerdote d’un culto pagano nelle isole Ebridi. Film anch’esso sostenuto da una robusta cultura e da un grande fascino visivo, con soggetto le celebrazioni nordeuropee del Calendimaggio, e terrificante nonostante l’abbastanza inedita ambientazione luminosa (ma il film più bello, più grande dedicato a un invisibile orrore sotto il sole resta Picnic a Hanging Rock, meraviglioso crogiolo di pulsioni e repressioni messo in immagini da un Peter Weir ancora aborigeno).
I problemi di Midsommar sono due: la monotematicità (l’astio per la famiglia che se con Hereditary ha portato Aster a realizzare un gioiello dell’orrore, con The Strange Thing about the Johnsons gli ha fatto creare un piccolo scherzo di cattivo gusto), e la scarsa possibilità d’immedesimazione (il solo personaggio con cui si possa simpatizzare è Dani, che non è proprio una Giovanna d’Arco, ma una malcapitata che senza sapere come prova a cavarsela; ma Aster sembra avere la stessa mentalità d’altri registi yiddish – ad esempio Woody Allen e i fratelli Coen, col loro nichilismo bruttissimo – e la possibilità di personaggi valenti è così esclusa a priori).
È comunque un’opera di genio, che nella parte centrale lascia scorrere la trama tra segnali tanto nascosti quanto terrificanti, e nel finale deborda in una sequenza d’immagini splendide, spaventose e misteriose come i riti che raffigurano. Una cruenta, ma elegante, raffigurazione d’uno sciamanesimo che sembra cattivo – e lo è, ma molto meno dei suoi civilizzati, tecnologici, asettici ospiti.