Ultimamente capita spesso. Parliamo di quel vuoto in cui le idee fanno a pugni coi pensieri e ammucchiandosi, formano un’energie inespressa che attende solo una scintilla. Leggere, quando neppure se ne ha voglia e quando il mucchio di nuove uscite, fermo ai box della libreria domestica, abituata com’è ad essere al centro dell’attenzione, rivendica un libro in particolare. Una biografia di uno degli autori che più si è amati in gioventù e che, a prima vista, pare l’ennesima sulla vita di Charles Bukowski. A questo punto è inutile sforzarsi. Qualsiasi intento lavorativo e l’approfondimento di più passioni, possono attendere. Solo per qualche giorno, relegandoli nel sottoscala e riacutizzando un interesse in particolare: il conflitto che intercorre tra due strumenti, una tastiera e un e-book mai usati ed ancora impacchettati, al fianco dei libri di lunga data sull’autore in questione. Eppure, nella vita bisogna pure scegliere. Meglio la vecchia lotta della carta e dell’inchiostro e la lettura di un nuovo libro in carta e copertina, duri a morire ? Hanno vinto la carta e “l’inchiostro” simbolici versati dalla biografia scritta da Roberto Alfatti Appetiti. E’ quanto di più autentico abbia mai macchiato i polpastrelli. Sempre che qualcuno abbia ancora da ridire su una certa sensibilità nel complicarsi la vita. Piacevolmente.
Tutti dicono che sono un bastardo, vita di Charles Bukowski (Bietti, pp. 332, euro 1900), di Roberto Alfatti Appetiti è una biografia singolare. Forse, una delle poche dove il personaggio principale non viene sezionato e ricomposto a seconda della libidine immaginata dal lettore. Quel vuoto che fa a pugni coi pensieri, è materialmente visibile nella vita e nelle opere di un americano atipico e, in quel personaggio di fantasia, presente in quasi tutte le opere bukowschiane a partire da Panino al prosciutto, Post Office, Storie di ordinaria follia, Taccuino di un vecchio sporcaccione e Pulp. Qualcuno direbbe che ci voleva un giornalista e saggista dall’animo corsaro, quale è Alfatti Appetiti, per dar voce alla sfacciataggine irriverente di “Buk”, dimenticandosi momentaneamente del suo alterego Henry “Hank” Chinaski ? Non proprio. Caso mai, e qui sta la bravura dell’autore, una conferma e la ricerca, perfettamente riuscita, del subconscio di un uomo, riuscendo ad anteporre il ripristino delle parti in una narrazione informale; condita dalle celebri frasi ad effetto di Bukowski, stanco e per nulla felice di farsi sottoporre ad un ulteriore maquillage post mortem: principalmente da quei rimasugli dell’anticonformismo salottiero e dai cenacoli letterari degli eredi della Beat Generation. Salvo, come in questa eccezione, (una rarità assoluta) riprendendosi le sue vesti ed eludendo ogni interpretazione sommaria proveniente da un suo racconto. Discorrendo questa volta in prima persona.
La strada che ha attraversato la vita di “Buk” non è la stessa narrata nel romanzo autobiografico di Jack Kerouac Sulla Strada. Piuttosto, è un continuo spostarsi da una costa all’altra degli Stati Uniti, scandendo l’esigenza di un viaggio fittizio che nel corso degli anni, fu spesso erroneamente compreso come l’evoluzione in crescendo di una cultura intrinseca dei migratori. Il poeta e scrittore statunitense di origini tedesche, sin dalla giovane età, era invece propenso ad includere nelle sue esperienze dalle situazioni borderline, quello straordinario avvicendamento dei rapporti tra l’uomo e il tempo, conscio dell’esigenza di dover essere in costante movimento. Se non altro, a suo modo, analizzando una “panoramica del mondo” e la sua condizione da candidato dalle scarse probabilità di vittoria e di arrivare nella vita, sbirciando però, spesso e volentieri l’inesorabile trascorrere di una clessidra a polvere ed una certezza: nulla conta più del tempo a propria disposizione. Nelle pagine scritte da Roberto Alfatti Appetiti e nella sua relazione interpersonale con Bukowski, emerge quella voglia di non concedersi ai quei sistemi di vivere il tempo che hanno scandito il corso della civiltà attuale. Facendo entrambi il verso Al libro dell’orologio a polvere di Ernst Jünger e alla regolarità garantita da un’occupazione di un impiego ordinario ma non certo il loro, assieme, intraprendono “una fuga ma non dalla realtà, piuttosto nella realtà”. Avvicendandosi amaramente nei meandri di una società che vede “Buk” alle prese con lavori saltuari, affitti non pagati, puttane, sbornie moleste e la promiscuità del sogno occidentale; analizzando quella irrealtà del vivere la propria vita con pienezza, assorti come siamo in lavori che non sono il nostro, consumando avidamente quello che non ci occorre, per poi essere gettati via solo alla nascita di una “nuova” generazione.
Una repulsione viscerale che si allinea ad un sistema e ad un mondo accademico pieno zeppo di vitalità (morte) in una società di cadaveri questuanti? Tale, nonostante tutto, da permettere al protagonista della biografia di rendere omaggio al suo maestro John Fante e all’autore, di addentrarsi nelle valutazioni positive e nella successiva repulsione dimostrata da Bukowski nei confronti di Hemingway; a più tappe con giudizi cinici ma realisticamente condivisibili, togliendo ogni dubbio sull’alone politico (delle masse, Destra e Sinistra) che in buona parte ha distrutto letteralmente alcuni mostri sacri della letteratura contemporanea quali Céline, Hamsun e Pound. A tal proposito “Buk”, non ha peli sulla lingua: «generalmente, negli uomini intelligenti c’e’ la tendenza a non credere in quello in cui crede la maggioranza delle masse, e la maggior parte delle volte questo li pone vicino all’obbiettivo, altre volte finiscono con il culo per terra, specialmente nella scena politica dove i vincitori ordinano quale sia la fazione giusta». Come non ritrovarsi nelle parole di uno scrittore che in vita e, anni dopo la sua morte, è sempre stato circondato da pappagalli ed emuli alla continua ricerca di una frase riuscita quanto le sue ? Piace pensare che persino durante il calvario della sua malattia durato sino al 9 marzo del 1994, possa aver pensato, fregandosene nietzschianamente, “meglio esser pazzo per conto proprio, anziché savio secondo la volontà altrui.”
Chiedetelo a un romano classe 1967 che dei soliti cliché ne ha fatto articoli taglienti. Se possibile, quando riuscite a staccare le dita da un’autobiografia scritta con stile. Non preoccupatevi, Bukowski era intenzionato prima o poi a scriverla da se. Ironia della sorte, gli è toccato fare i conti con un “matto” come lui. Una delle sue poche scommesse vinte e senza neppure dover puntare su un quadrupede. Chissà se da lassù se ne è mai reso conto.
Roberto Alfatti Appetiti
Tutti dicono che sono un bastardo, vita di Charles Bukowski
Edizioni Bietti, marzo 2014
Ppgg. 300 – € 19.00