L’esercito israeliano, ad 11 giorni dall’inizio delle operazioni terestri, ha ormai tagliato in due la Striscia di Gaza, circondando Gaza city e iniziando ad attestarsi nei quartieri meridionali di Zeitoun e Tal El Hawa. Operazione duramente contrastata dai miliziani di Hamas che, sfruttando la rete di tunnel realizzata in questi anni e le montagne di macerie prodotte dai bombardamenti israeliani, riescono a mettere in atto un’efficace azione di contrasto fatta di attacchi rapidi ed improvvisi. La tattica di Hamas impone prudenza a Tsahal e un tasso di perdite non irrilevante: sarebbe 40 i militari israeliani caduti a Gaza, con circa 300 feriti. Numeri più alti secondo le fonti palestinesi, secondo un copione consueto.
Continuano le scaramucce lungo il confine libanese, ma appare improbabile un’azione massiccia da parte di Hezbollah, che si limita – o meglio, è costretta a limitarsi – ad una azione “al minimo sindacale”.
Più preoccupante – pur non essendo oggetto di grande attenzione – l’evoluzione della situazione in Cisgiordania, dove alle proteste di piazza dei primi giorni sembra si stia sostituendo uno scontro più intenso, ormai arrivato a livello di guerriglia, Ad animarla non solo Hamas e Jihad Islamica, quanto una serie di formazioni “indipendenti” nate grazie all’ormai evanescente presenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.
In Cisgiordania la situazione è tale da aver richiesto l’intervento dell’esercito israeliano in supporto alla polizia, con tanto di impiego di raid aerei e droni. Punti caldi le città di Jenin, Nablus e Tulkarem, ma la situazione degenera rapidamente in tutta la regione. Ad oggi sono 163 le vittime palestinesi. Un secondo fronte, quello cisgiordano, che rende ancor più gravoso – anche economicamente – l’impegno israeliano, soprattutto nella prospettiva di un conflitto prolungato. Interrogarsi sulla sostenibilità dello stesso è ormai necessario.