Nutro rispetto per Vladimir Putin come statista e come leader del proprio paese. E’ un sentimento maturato negli anni, affinato attraverso numerosi viaggi a Mosca, dove chiunque può toccare con mano un dato incontrovertibile: mai la Russia, nella sua storia plurisecolare, ha conosciuto libertà e benessere come nell’ultimo decennio. Se il giornalismo sapesse alzare gli occhi dai clamori della cronaca e abbracciare con lo sguardo anche il passato prossimo e remoto, si renderebbe conto che siamo di fronte a un’evoluzione straordinaria, che merita di essere studiata e apprezzata. Ma non è solo per questo che Putin gode, in patria, di un sostegno così vasto. La sua statura politica è legata infatti, soprattutto, al modo in cui, dopo il caos degli anni Novanta, ha saputo restaurare l’autorità dello Stato. Aveva ereditato un paese stremato, lacerato da spinte centrifughe, divenuto irrilevante sul piano internazionale, e ha invertito la tendenza. Non piace troppo agli occidentali, che certo avevano trovato in Boris Eltsin un ben più accomodante interlocutore. Pazienza. E’ ai russi che deve piacere, dai quali ha avuto alle elezioni presidenziali del 2012, in lizza trasparente con altri quattro candidati, il 65 per cento dei voti.
A partire dalla sua rielezione, la Russia è stata bersaglio di una animosa, quanto generica, campagna sui “diritti umani”, collaudata formula passepartout usata per destabilizzare i governi non graditi. Nessuno nega che il sistema giudiziario russo abbia i suoi difetti. Ma le famose “leggi liberticide”, secondo la goffa ammissione di una protesta firmata da 200 scrittori (e vari Nobel), si riducono a una legge sulla diffamazione, a una legge contro gli “insulti alla religione”, a una legge per tutelare i minorenni dalla “propaganda gay”. La Russia, dove l’omosessualità come stile di vita privato è libera, non vuole i matrimoni gay e i Gay Pride: e allora? E’ un grande paese, con i suoi valori e le sue tradizioni, non dà lezioni e non accetta lezioni da nessuno. Tanto più ora che ha riconquistato, dopo averla persa, la fiducia nella propria identità di nazione, una nazione che fa parte, come l’occidente, di una comune civiltà cristiana – ma ne fa parte con una propria individualità, a cui non vuole rinunciare.
La Russia sospetta che queste campagne d’opinione nascondano la vecchia tentazione euro-americana di espandersi verso est. Come darle torto? Dopo il crollo dell’Urss, la Nato si è allargata a tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia e oltre, e adesso bussa alle porte di Georgia e Ucraina, cioè ai confini di casa. Commentatori indipendenti come Henry Kissinger e Sergio Romano riconoscono, nella grave crisi ucraina, le responsabilità euro-americane, proprio nel non avere tenuto in conto le legittime preoccupazioni russe. L’Ucraina è un paese di frontiera, intimamente legato alla storia e alla cultura russe: volerla tirare tutta da una parte o dall’altra è una evidente forzatura, di cui stiamo assistendo alle tragiche conseguenze. Solo un irresponsabile poteva immaginare che il “colpo” di Kiev non avrebbe provocato una ferma risposta di Mosca. Invece di baloccarsi con le sanzioni, l’Europa dovrebbe imboccare l’unica strada che è nell’interesse di tutti: sedersi al tavolo con Putin e avviare un negoziato, che non può che cominciare là dove è stato brutalmente interrotto; da quell’accordo firmato il 21 febbraio tra Yanukovic e le opposizioni, che prevedeva a Kiev un governo di larga coalizione, accordo sottoscritto e garantito dai ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia. Accordo che alcune ore dopo è stato considerato carta straccia dal Maidan, sotto gli occhi compiaciuti e compiacenti dei paesi europei che lo avevano firmato.
di Massimo Boffa, Il Foglio, 11.3.2014