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Quando Vilfredo Pareto distrusse Marx

di Redazione
28 Agosto 2017
in Rassegna Stampa
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Quando Vilfredo Pareto distrusse Marx
       

«Il libro di Karl Marx dovrebbe intitolarsi Il capitalista, piuttosto che Il Capitale». Questo perché del capitale non disconosce l’importanza, anzi «ammette che deve non solo riprodursi ma ancora aumentarsi per poter sviluppare “le forze produttive e le condizioni materiali che sole possono formare la base d’una società nuova”». «È il capitalista il nemico».

Per celebrare il centocinquantesimo anniversario del primo libro del Capitale di Marx, Aragno ripropone la prefazione che a Vilfredo Pareto chiese l’editore Guillarmin, un quarto di secolo dopo. In Italia il testo fu prontamente tradotto su L’Idea liberale e poi pubblicato in volume a Palermo.

Le critiche che Pareto muove a Marx sono essenzialmente due.

In primo luogo, quella del filosofo di Treviri è un’economia ormai obsoleta. Das Kapital manca di poco la rivoluzione marginalista, che finalmente chiarisce che cosa sia il valore.

Per Marx «è evidente che si fa astrazione dal valore d’uso delle merci quando si scambiano». Il valore di scambio sarebbe una sorta di espressione della “sostanza” che risiede nei beni: ovvero la quantità di lavoro.

In realtà, spiega Pareto, è vero proprio il contrario. Chi ha acqua a sufficienza non baratterà mai un bicchiere col proprio orologio perché in quelle circostanze «il valore d’uso… è molto minore per voi del valore d’uso dell’orologio». “Ma se siete morente di sete, voi accetterete con riconoscenza una simile proposizione, perché allora il valore d’uso nella quantità d’acqua che vi si offre è molto più grande del valore d’uso dell’orologio». Se si guarda alle ragioni di scambio «la considerazione del lavoro incorporato nella merce» non interviene per niente: contano invece le necessità e le preferenze delle persone che scambiano. L’idea che ciascuno si fa sul “valore d’uso” che riuscirà a trarne.

La seconda critica riguarda un punto cruciale per entrambi, Pareto e Marx: lo sfruttamento. L’opera di Marx è un’elencazione dei capi d’accusa a carico del capitalismo, responsabile grosso modo di tutti i mali dell’umanità. E tuttavia al padre del comunismo non riesce di dimostrare che la sua alternativa ridurrebbe il grado di sfruttamento, rispetto alle società in cui poco o tanto sopravvive la libera concorrenza.

Assodato che di capitale per produrre “cose” vi sarà sempre bisogno, «sarà sempre necessario che qualche essere umano abbia a decidere a quale scopo, a preferenza d’altri, dovrà essere impiegato il capitale esistente». Quali fabbriche mantenere in funzione, quando cambiare i macchinari che vi si impiegano, se e dove aprire un nuovo stabilimento, sono decisioni che hanno un costo, chiunque lo debba sostenere.

Per Marx, lo Stato potrà prelevare dal lavoro dei cittadini quanto serve per garantire «la riproduzione semplice e progressiva del capitale senza intervento alcuno del cavaliere dalla trista figura chiamato capitalista». Ma basta eliminare il capitalista per eliminare lo sfruttamento? Secondo Pareto è improbabile che «l’estensione delle attribuzioni dello Stato guarisca il male invece di peggiorarlo».

L’autore dei Sistemi socialisti scopre in fretta il gioco di Marx: considerare la miseria il frutto esclusivo del sistema capitalista quando essa in realtà lo precede di qualche millennio.

Feroce nemico degli establishment del suo tempo, e per nulla tenero lui pure con la borghesia quando essa si fa scudo dello Stato, per Pareto lo sfruttamento è un fenomeno più generale, legato all’essenza della politica.

Sappiamo dalle lettere a Maffeo Pantaleoni che in questo testo, sul quale lavorò per un paio d’anni, voleva fosse chiaro «che combattendo i socialisti non intendo punto assumere la difesa di politicanti-economisti come il Salandra». Contro Marx, Pareto non difende né lo status quo né l’allineamento dei poteri pubblici con altri sistemi di pensiero. Riteneva fosse «insostenibile di prendersela coi socialisti perché vorrebbero mutare artificialmente la distribuzione della ricchezza, e poi accettare i mutamenti artificiali che a loro pro vogliono fare certi sedicenti economisti» (7 marzo 1893).

Logico implacabile, gli argomenti di Pareto, che già conosceva la Storia e critica delle teorie dell’interesse del capitale (1884) dell’austriaco Bohm-Bawerk, sono cogenti e cristallini.

Come sottolinea il curatore Michele Bonsarto, Pareto dichiara di voler «sceverare la verità dall’errore», sezionare le principali affermazioni marxiane, farne una critica la più puntuale possibile.

Spinto anche da Pantaleoni, che aveva dei dubbi sull’efficacia della prima stesura, il successore di Walras non voleva trattare «l’argomento con verve», con la stessa vis polemica di cui aveva dato prova nei suoi scritti più brevi, perché «il sarcasmo di Voltaire è tollerato solo da chi è già convinto».

Pareto s’era ben accorto che il libro che voleva confutare «è il vangelo di un numero ognora crescente di uomini». E non bastava pertanto sbrigarsela «con due parole dicendo: il ragionamento di Marx è falso», perché bisognava seminare dubbi fra fanatici: «Procurare in tutti i modi di aprire gli occhi a chi li ancora li ha chiusi e perciò non limitarsi a una dimostrazione, ma provarle tutte, per vedere quale è più persuasiva» (18 aprile 1893).

Buone intenzioni che, almeno coi contemporanei, valsero a poco. La Critica sociale lo sbertucciò come «marchese, ingegnere e professore, chiamato a Losanna a sbriciolare le sue teorie anarchico-borghesi al popolo svizzero».

Vedremo se coi posteri, grazie a questa meritoria edizione e alle lezioni della storia, Pareto avrà più fortuna.

 

Alberto Mingardi, Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2017

Tags: filosofiaKarl MarxVilfredo Pareto
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