Per loro, per i 90 e passa “martiri” la processione è appena iniziata. Spuntano uno ad uno dagli archi, sfilano sotto la cupola dorata del santuario, incrociano il minareto azzurro mentre i loro nomi, urlati dagli altoparlanti, riecheggiano sotto una coltre di nubi argentate. Shaid Mustafa, Shaid Ahmed, Shaid Alì… E così per 90 volte. O forse più. Lì, nel piccolo ospedale di Al Sadr, a pochi passi da Al Tin, la strada dell’ecatombe, si continua a morire.
I feriti sono parcheggiati ovunque, fin oltre l’ingresso, fin sul marciapiede dove lettighe e letti attendono da 12 ore un posto al coperto. Davanti al santuario di Zaynab, la nipote del Profeta, la venerata figlia di Alì, primo imam dello scisma sciita, s’accalcano, persino oggi, i pellegrini arrivati da Iran, Irak, Arabia Saudita e Bahrain. Attendono pazienti, quasi indifferenti, mentre al loro fianco si fa la fila per il cimitero.
Qualcuno dei “martiri” di ieri faceva parte del loro gruppo. Ma nessuno si scompone. “Lo Stato Islamico non ci fa paura, morire da martiri fa parte del pellegrinaggio” ripete indifferente Amjid. Oltre i pellegrini, oltre le cancellate guardate da centinaia di militari, ma anche da decine di miliziani sciiti provenienti dall’Irak, i corpi disfatti dei “martiri” si ricompongono nei sudari intrisi di sangue ed adagiati nelle bare.
Poi, ad ogni nome urlato dall’altoparlante, un cappotto di legno prende il volo e, sollevato da trenta mani aleggia alla testa d’un serpente di folla impazzita. I kalashnikov crepitano nel cielo, mentre le urla di rabbia si mescolano al pianto, mentre le scarpette dei bimbi rincorrono gli scarponi dei militari. Come un ritorto, dinoccolato millepiedi, ogni feretro divora il fango, affonda tra le lapidi candide rivolte alla Mecca. Ottanta e più fosse già scavate attendono il proprio inquilino.
Siamo venti chilometri a sud di Damasco, siamo a Sayeda Zenab, il sancta sanctorum sciita colpito domenica sera da uno dei più devastanti attentati messi a segno dallo Stato Islamico in questi cinque anni di guerra. Due autobomba, due kamikaze esplosi a pochi secondi di distanza alle due estremità di Tin Road falciano – contando anche i morti di queste ultime ore – più di 90 vite. Trasformano in un mattatoio disseminato di corpi smembrati questi duecento metri di strada costeggiati da bancarelle.
Certo in questo sobborgo di Damasco, circondato da villaggi, dove i ribelli sono stati a lungo egemoni, morti e stragi sono una tragica consuetudine. Solo il 31 gennaio scorso altre tre autobomba del Califfato, esplose davanti al santuario, hanno fatto 60 vittime. E a falciar vite e speranze, quando non arriva lo Stato Islamico, ci pensano i mortai e i missili dei ribelli. Quelli trincerati nel villaggio di Babbila distano solo mezzo chilometro.
Ma l’Esercito Libero, i militanti alqaidisti di Jabat Al Nusra e altri gruppi jihadisti sono anche a Sidi Maqdad, Bets Sahem, Aqraba e nelle campagne circostanti. Eppure anche stavolta nessuno sembra spiegarsi come i kamikaze del Califfato si siano infilati in questa cittadina circondata da posti di blocco dove poliziotti, soldati e servizi segreti di Damasco ispezionano ogni auto, ogni passante. E così la paranoia si diffonde. E da qui al centro di Damasco dilaga il timore di nuovi attentati per mano di un nemico che domenica – dopo aver fatto strage anche ad Homs – è riuscito a infiltrare tre tratti dell’unica strada per Aleppo bloccando i collegamenti con la capitale.