Sobborghi di Denver, 1978: Finney è un ragazzino intelligente, bravo a baseball e con i modelli di razzi spaziali, che assieme alla sorella Gwen sopporta il padre alcolizzato e manesco, e grazie all’amico Robin (un ragazzino indio che picchia come Bruce Lee) resiste ai bulli della scuola. Il quartiere è però flagellato da un serial killer, detto “Il Rapace”, che dopo aver rapito cinque ragazzi lasciando palloncini neri sui luoghi del misfatto, cattura proprio Finney. La polizia brancola nel buio e si affida a Gwen, che dalla madre suicida ha ereditato il dono dei sogni rivelatori; intanto Finney, rinchiuso dal Rapace in uno scantinato spoglio e sporco, scopre che il telefono nero appeso nella stanza riceve chiamate molto speciali.
Tra i vari punti di forza di “Black Phone”, horror raffinato e di pregevole fattura, il migliore è la galleria dei personaggi: da Bruce (il ragazzo asiatico amico e rivale a baseball di Finney) e Robin, ai due duellanti (il timido ma grintoso Finney contro il Rapace, psicopatico che dopo aver mostrato tracce di rimorso si rinchiude dietro le sue maschere per impersonare il male puro): ma sugli scudi c’è la piccola Gwen, amorevole col fratello e dotata, prima che della preveggenza (e d’un discreto talento per le risse e il linguaggio da caserma), d’un carattere d’acciaio. Personaggi ben definiti, con l’eccezione del Rapace: ma è ottima la scelta di lasciare questo feroce, patetico cacciatore di ragazzi nel mistero (ne è taciuto persino il nome – nel racconto è svelato: Albert).
Si può immaginarne il passato (un indizio è offerto dalla tossicodipendenza del fratello: forse hanno avuto un’infanzia difficile, e crescendo uno si è rifugiato nella droga e l’altro nella violenza; presentarsi come tenebroso clown è poi un fin troppo ovvio indizio, se non addirittura una prova, di traumi infantili), e le sue lacrime durante i primi colloqui con Finney lasciano trasparire la sua immedesimazione nei patimenti del ragazzo: a parte ciò, il Rapace impersona un male puro, fine a se stesso (come lo è il “gioco”, statico e assurdo, cui sottopone i suoi prigionieri). Non fosse per le maschere diaboliche che indossa (una trovata scenica geniale), la bellezza e la forza fisica, il Rapace è una figura misera e piccina, indistinguibile dai tre bulli codardi che profittano dell’assenza di Robin, il giustiziere della scuola, per inseguire Finney: nemmeno chi al cinema tifa per i cattivi può simpatizzare per il Rapace, ma un po’ di compassione gliela si accorda. Le maschere del Rapace sono il tratto distintivo che gli conferisce un aspetto spaventoso: ma sono anche la prova della sua vigliaccheria (quando deve entrare in azione, ne toglie metà; e quando Finney riesce a strappargliela, la reazione terrorizzata del Rapace è eloquente riguardo la sua urgenza di stare nascosto, non come un uccello da preda ma piuttosto come un coniglio nella tana).
Bravissimi i ragazzi: Madeleine McGraw (Gwen), Mason Thames (Finney), Tristan Pavong (Bruce), Miguel Cazarez Mora (Robin). Ethan Hawke temeva di trovarsi appiccicato un ruolo negativo per il resto della sua carriera, salvo poi apprezzare questa stessa prospettiva. Ottima la sua prova, tutt’altro che penalizzata dal dover tenere il volto quasi sempre celato.
Tratto da un racconto di Joe Hill (nom-de-plume di Joseph King, figlio del celeberrimo Stephen, che si ispirò al pargolo per “Shining”), nel quale il “Grabber” è ispirato a John Wayne Gacy alias Pogo il Clown (il serial killer omosessuale che uccise 33 ragazzi tra il 1972 e il ’78, seppellendone 28 in uno scantinato a Chicago, e che proprio a King Sr. ispirò il pagliaccio demoniaco It): un pedofilo obeso, assai diverso dal predatore atletico e casto del film.
Colonna sonora originale composta da Mark Korven; ma nel film si possono ascoltare anche temi musicali di telefilm (per esempio, “Squadra emergenza”) nonché due quasi eponime hit dell’epoca: “Fox on the Run” degli Sweet e “On the Run” dei Pink Floyd.
Costato appena 19 milioni di dollari, soltanto tra USA e Canada ne ha incassati 50 nei primi dieci giorni in sala: appena uscito al cinema, “Black Phone” è assurto al rango di classico del cinema horror.

Già regista del primo “Doctor Strange” (film della Marvel con Benedict Cumberbatch nei panni d’un neurochirurgo che diventa supereroe), Scott Derrickson ha lasciato a Sam Raimi la regia del sequel, perché convinto della bontà del progetto “Black Phone” (ambientato nella sua stessa città natale): ottima scelta. Già autore di “The Exorcism of Emily Rose” (ambientato negli States ma ispirato al celebre caso di possessione demoniaca d’una ragazza tedesca, Anneliese Michel), e sceneggiatore per Atom Egoyan di “Devil’s Knot – Fino a prova contraria” (sulla vicenda realmente accaduta dei “West Memphis Three”: ragazzi condannati, nonostante gravi dubbi sulla correttezza del processo, per tre infanticidi che avrebbero commesso per rituali satanici), ha familiarità con le inquietudini della provincia USA e con l’orrore profondo.
Il cinema del terrore sta attraversando (sembra un ossimoro) un momento felice: nonostante l’intellettualismo della casa di produzione A24 stia mostrando la corda (le esili spalle di Ari Aster non ne reggono più il peso, e il pur notevole “Lamb” prodotto e interpretato da Noomi Rapace è parso un’esagerazione non del tutto seria), il livello resta piuttosto alto e sembrano lontani i tempi in cui i film “di spavento” erano soltanto sequenze un po’ becere di “jump scare” (si pensi alla crescita di James Wan: dalle macellerie di “Saw” a un trittico intelligente, elegante, raffinato e colto quale “Conjuring”). “Black Phone” ha qualche affinità di troppo con un sopravvalutato prodotto seriale molto alla moda, il telefilm “Stranger Things” (ossia l’arte d’allungare il brodo): dalla preadolescenza alla provincia americana con i suoi piatti paesini popolati da villette, dagli appuntamenti televisivi alla musica pop “vintage”, dall’orrore sotterraneo alla colonna sonora “tamarra” col sintetizzatore; il racconto da cui è tratto è antecedente al telefilm, ma farne uscire l’adattamento cinematografico adesso (mentre “Stranger Things 4” fa balzare in cima alle classifiche dei singoli una super-canzone del 1985: “Running Up That Hill” della geniale Kate Bush) può sembrare una furbata. Che nulla toglie al valore di “Black Phone”, uno dei migliori film horror usciti dopo il Duemila. Pur senza avere il dono della piccola, indomabile Gwen si può azzardare una profezia: “Black Phone” resterà un classico del cinema della paura.
Da dedicare a Willy Duarte, piccolo eroe vittima dei bulli.