Quando il prezzo del petrolio superava i 120 dollari al barile, in Italia la benzina era arrivata a sfiorare i due euro al litro. Ora il barile costa meno di 30 dollari. Dunque, facendo un rapido calcolo, la benzina dovrebbe costare 50 centesimi al litro. Non è così: gli automobilisti italiani viaggiano a tasse, non a benzina o a gasolio. Ma tutti si sentono ripetere, ormai quotidianamente e più volte al giorno, che il crollo del prezzo del greggio non è un affare. Indubbiamente non lo è per gli italiani supertassati. Ma in assoluto?
Il discorso è complesso e, di conseguenza, rappresenta un alibi perfetto per chi tutela il proprio potere grazie alla confusione. L’Italia ha scarsissime risorse energetiche – anche per una fallimentare politica sulle rinnovabili – e, dunque, continua ad importare la stragrande maggioranza del suo fabbisogno energetico. E se il prezzo crolla, logica vuole che ci sino grandi benefici per le industrie che consumano energia ma anche per i costi di illuminazione pubblica e per quelli del riscaldamento delle case e degli uffici. Dunque quali sono le controindicazioni?
Il problema è rappresentato da un’economia che ha privilegiato le esportazioni, a danno dei consumi interni. I salari italiani sono in fondo alle classifiche dei Paesi europei e Nordamericani. E con quello che guadagnano, gli italiani sono costretti a rinunciare ad acquistare prodotti italiani di qualità. A partire dal cibo. Il che, unito all’impossibilità di curarsi adeguatamente per le stesse ragioni, ha portato ad un aumento di morti italiani nel 2015 a 68mila. Un dato che riporta al 1917 quando, ai morti per la prima guerra mondiale, si aggiunsero quelli per la “spagnola”, l’influenza che creò più morti di quelli del conflitto.
Ma se i prodotti italiani sono destinati all’esportazione, occorre che i mercati altrui siano ricchi. Invece, con il petrolio a prezzi da saldo, i Paesi produttori del greggio si ritrovano in forte difficoltà. A partire dalla Russia, penalizzata pure dalle sanzioni. E le esportazioni italiane verso Mosca sono crollate. E lo stesso vale per gli altri Paesi produttori: più si impoveriscono e meno acquistano. Con ripercussioni negative non solo in Italia, ma anche in Cina. Pechino rifornisce di merci, spesso scadenti ma a prezzo ridotto, molti mercati. Ed ora le esportazioni cinesi si riducono, perché la crisi morde in Asia come in America Latina. Ed i costi di estrazione dello shale oil negli Usa – nettamente più alti di quelli sostenuti dall’Arabia Saudita per l’estrazione tradizionale – sono insostenibili con un prezzo del greggio così basso. Dunque si cominciano a paventare rischi di bolle speculative in esplosione anche in America del Nord. Con ulteriori conseguenze negative per tutti gli esportatori mondiali, Italia compresa. La Cina sta cercando di virare verso il consumo interno, ma per far questo servono salari più alti. Ed in Italia, con una disoccupazione giovanile vicina al 40%, non solo non si parla di aumentare i salari, ma neppure di incrementi dell’occupazione.