Bene ha fatto Gennaro Malgieri a ricordare Carlo Curcio e il suo essenziale “Europa. Storia di un’idea”. Il voto dei popoli europei ha reso proprio omaggio alla definizione che Curcio dette dell’Europa: Terra di Nazioni. Hanno voglia i commentatori iscritti al Partito Mercatista Internazionale a dire ancora in queste ore che in fondo in Europa non è cambiato nulla. Molto difficilmente i loro desideri diventeranno realtà.

In Europa è cambiato parecchio e ancora altro cambierà. Il voto del cosiddetto fronte sovranista, composito come tutti i fronti, non ha risolto le cose al primo attimo. Dopo quella dei risultati delle urne la partita adesso è quella della formazione dei Gruppi parlamentari e della costituzione della Commissione con i suoi incarichi di governo.
I Gruppi. Qui si giocherà molta parte della partita. Se i sovranisti (definiamoli tutti così soprattutto per comodità di ragionamento) non riusciranno a superare la loro attuale segmentazione in tre parti (Europa delle Nazioni e delle Libertà, Europei Conservatori e Riformisti, Europa della Democrazia Diretta e della Libertà) avranno perduto ogni possibilità di condizionamento non solo della vita dell’Assemblea ma della stessa attività del Governo dell’Unione.

Se invece dovessero trovare la maniera di aggregarsi diverrebbero un gruppo di almeno 150 eurodeputati (63 conservatori + 58 euronazionalisti con quelli dell’EFDD fanno 175, ma non tutti, soprattutto quelli dell’EFDD, saranno d’accordo a convergere: c’è però sicuramente da aggiungere qualche eurodeputato per ora attribuito al Gruppo tecnico dei non iscritti e che dall’ingresso in un Gruppo politico avrebbe molteplici vantaggi relativi ad esempio al diritto di parola in Aula e in Commissione). Un gruppo in ogni caso pesante, che su ogni tema può attrarre interessi e adesioni esterne.
Ma questo è il cambiamento che scaturisce dai nuovi numeri usciti dalle urne. C’è poi da fare una valutazione attenta delle motivazioni di questi numeri, cioè del che-cosa li ha determinati. Che è più importante.
Ricordiamoci di queste date: 1968 e 1973.
1968 è l’anno nel quale il britannico Enoch Powell gettò, per primo, l’allarme su quello che poi avremmo chiamato l’immigrazionismo sfrenato nelle società europee. Powell era deputato conservatore dal 1950 ed era stato ministro nel Governo di Harold MacMillan. Le sue parole fecero scandalo. Lo cacciarono a pedate nel culo dal Conservative Party malgrado che il 74 per cento della pubblica opinione fosse dalla sua parte. Se ne andò nell’Ulster Unionist Party e venne rieletto deputato fino al 1998. Quelle parole forti e coraggiose vennero pronunciate a Birminghan. Anni dopo (1976), sempre a Birminghan, Eric Clapton durante un concerto disse le stesse cose di Powell e il nascente Pensiero Unico lo crocifisse.
Dal 1968 siamo arrivati a oggi e quelle parole si sono rivelate profetiche.
1973. Al di là della Manica, il signor Jean-Marie Le Pen dette una intervista al settimanale Minute e denunciò il calo demografico dell’Europa, la pressione del mondo islamico verso l’Europa, lo sfruttamento della manodopera africana in Occidente, il rischio di conflitti razziali nelle nostre città e la crisi di valori del Vecchio Continente. Lo marchiarono a fuoco col timbro del razzista. Vinsero la guerra delle parole (il marchio di razzista gli è rimasto appiccicato), ma non quella delle idee.
Dal 1973 siamo arrivati a oggi e anche quelle parole si sono rivelate profetiche.
I semi gettati a terra nel 1968 e nel 1973 hanno germogliato dopo un lungo inverno fatto di conformismo e di rinunce, di buonismo e di ipocrisia, di miopia e di disvalori. E i risultati li possiamo vedere anche nel nuovo Parlamento europeo. Dove la presenza di chi vuole difendere valori e identità comuni è aumentata in modo considerevole e significativa. Dove la guerra delle idee per la prima volte ha, magari di poco, vinto su quella delle parole.

Commercio internazionale, ruolo dell’Europa nella politica planetaria e in particolare nel Mediterraneo, difesa militare comune, rapporto politico e non solo economico con gli Usa e con l’Eurasia, relazioni rifondate con l’Africa tutta e non solo con quella settentrionale, fisco comune, trasporti, soprattutto realismo anche etico verso le questioni sociali dei Paesi membri dell’Unione e non più imposizioni vessatorie figlie della visione elitarista e cinica del Vecchio Continente: una agenda grande così. Gli eletti del fronte sovranista dovranno far sentire alta e forte la voce dei popoli e non più delle oligarchie.
L’Europa ha parlato ed ha parlato bene. Certo, ogni Paese ha parlato col proprio tipico linguaggio.
Nessuno, d’altra parte, ha mai detto o scritto che le Destre di ogni Paese sarebbero un giorno diventate una Destra internazionale unica e univoca. Ogni Destra ha una sua storia, ha un suo linguaggio, ha sue tematiche, ha sue prospettive: che sono le rispettive differenze. Ma tutte le Destre hanno un unico sistema di valori che le può far camminare verso la stessa direzione.
Il fronte sovranista non potrà mai diventare una Internazionale della Destra. Sarebbe una pacchiana contraddizione in termini destinata a durare minuti. L’internazionalismo, peraltro sempre fallito, appartiene ad altri, alla sinistra e ai liberali.
E’ venuto il tempo di una nuova Eurodestra, che resta una lezione attualissima proprio perché non fu un abbozzo di una improponibile Internazionale ma fu uno sforzo corale, il primo nel dopoguerra, di dare un collegamento alla stessa famiglia di pensiero e di princìpi.
Oggi sappiamo che a Strasburgo c’è, più forte di prima, una volontà di aggredire in modo nuovo i molteplici problemi che attanagliano il Vecchio Continente. E laddove c’è una volontà c’è sempre un cammino, una direzione, una linea. E un obiettivo da perseguire.
Chi è stato inviato a Strasburgo da questa grande spinta popolare non può tradire quella volontà né può sottrarsi a quel cammino.