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Il racconto/ Mal d’Africa

di Eugenio Pasquinucci
2 Giugno 2014
in Home
1
Il racconto/ Mal d’Africa
       

Cominciavo a perdere la pazienza. Era ormai passata un’ora e non era più arrivato nessuno nell’ambulatorio dell’ospedale. Ero lì a far niente, mentre il mio collega visitava gente  a più non posso nella piccola clinica di Biriwa, uno sperduto villaggio di pescatori , vicino a Cape Coast, sul golfo di Guinea, in Ghana.

 Per ragioni di politica spicciola, al fine di  intrattenere buoni rapporti  tra  i medici volontari italiani e i sanitari ufficiali del posto, era toccato a me andare a far visita al direttore sanitario dell’ospedale a dieci chilometri di distanza. Costui, dopo avermi accolto calorosamente, dopo i convenevoli di rito, mi aveva rifilato i suoi appuntamenti del mattino e si era preso mezza giornata di libertà. Così mi toccò visitare alcuni pazienti, tutti con la malaria, stesi su un lettino dove arrivava un’aria gelida dal condizionatore a manetta, che avrebbe fatto rabbrividire anche un pinguino. Poi, terminate le quattro visite, l’infermiera se ne era andata e io ero rimasto solo a guardarmi attorno girandomi i pollici.  

Finalmente entrò una dottoressa, che si qualificò come pediatra, a tenermi compagnia. Era cubana, grassoccia e con un viso gradevole, e non seppi resistere dal farle subito una domanda a bruciapelo:” Tra poco Fidel Castro se ne andrà per sempre e vi lascerà liberi, siete sollevati?”. Invece di una risposta indignata o tergiversante, la collega non si scompose e mi spiegò che il Leader  Maximo dopo due anni di lavoro all’estero, imponeva a tutti di tornare in patria e lei era molto contrariata perché in Ghana si trovava bene e guadagnava qualcosa.

 Ci salutammo e di lì a poco un autista venne a prelevarmi e a riportarmi alla nostra clinica, dove attendevano sulla terrazza ancora pochi malati di una lunga fila. Era da poco più di un anno che era partito il Baobab Project  in cui medici volontari italiani si avvicendavano a turno nel visitare la popolazione locale. L’iniziativa era cominciata in sordina, dalla Onlus organizzatrice era stata elargita una discreta somma come indennizzo allo stregone locale, poi pian piano la gente aveva preso confidenza con la clinica degli italiani e ora si viaggiava sulle centocinquanta visite al giorno, con due medici in servizio.

Quel pomeriggio stesso mi recai in un villaggio nell’interno, accompagnato dalla nostra guida, una tedesca africanizzata, ed un’antropologa americana, di Denver, Colorado. Il villaggio era piccolo ma aveva un pozzo e quattro chiese. “Se vuoi vivere bene, metti su una chiesa”, disse cinicamente la guida tedesca.

Visitai tutti i bambini di una scuola e alcuni anziani malati. La tedesca, un donnone burbero ma dal cuore d’oro, donava i farmaci necessari alle varie terapie da me prescritte.

Fu l’ ultimo giorno della mia esperienza, iniziata alcune settimane prima, anche in modo traumatico, con l’arrivo in ambulatorio , tra i primi pazienti , di un bambino di otto anni in coma malarico, che io ed il mio collega dirottammo subito all’ospedale vicino, purtroppo sapendo che non c’era alcuna speranza di salvezza.

La malaria costituisce l’ ottantacinque per cento delle diagnosi negli ambulatori del Ghana mentre l’Aids è la tragedia del Sudafrica e di altri stati satelliti.   Quella sera, tornando alla nostra base chiesi alla guida tedesca se tutto il nostro lavoro avesse un senso.

“Noi vediamo bambini, le loro mamme, qualche giovane e rari anziani, tutti o quasi con la malaria, li curiamo, forse guariscono, ma dopo qualche mese sono daccapo, ancora con attacchi di malaria. Non siamo altro che gocce in mezzo al mare.”  Commentai con una punta d’amarezza.

“No, forse non te l’ho detto, ma giorni fa è venuto a trovarci il capo villaggio e con soddisfazione mi ha annunciato che da quando ci siete voi italiani, la mortalità infantile è diminuita a Biriwa.” Mi rispose.

I medici volontari che si recano in molti paesi africani, tramite organizzazioni umanitarie,  per svolgere la loro professione con spirito missionario  talvolta vanno a coprire lacune endemiche,  in altri casi  sopperiscono alla fuga di cervelli locali verso realtà più redditizie e con maggiori garanzie in termini di qualità della vita.

In Ghana nel periodo fra il 1985 ed il 1990 sono stati sessantamila i professionisti  africani che hanno scelto, una volta laureati, di svolgere il loro lavoro in paesi anglosassoni. La loro preparazione è buona, la conoscenza della lingua perfetta, la capacità di integrarsi in altre realtà ottimale. Qualcuno arriva anche in Italia, si laurea, poi non torna, rimane qui, magari diventa parlamentare europeo, nella sinistra…

Libero di farlo, un po’ meno di dare lezioni al prossimo.

Oltre a questo tipo di emigrazione, vi è quella più conosciuta degli sbarchi sulle nostre coste. Non sono i disperati, come si affannano a scrivere i nostri giornalisti, a tentare di raggiungere l’Europa. Ho potuto vedere disperati veri  nelle strade di Accra, Lagos, Nairobi, Arusha, Antananarivo, con una t-shirt stinta, sempre la stessa, un paio di calzoncini, e quando le scarpe ci sono, delle infradito o delle snikers senza stringhe. Non guadagnano più di un euro al giorno, come potrebbero pagarsi il viaggio fino a Lampedusa?

Da sempre l’Africa è stata privata dei suoi uomini migliori, oggi con il piano “Mare Nostrum”  stiamo contribuendo alla diminuzione di  risorse umane potenzialmente valide. Per salvare l’Africa non servono piani di aiuti:  questi non sono la soluzione, la rimandano solamente.

Occorrono piani di adozione per incoraggiare giovani ad affrontare gli studi per diventare infermieri, medici, ingegneri, geologi, agronomi. Ad un patto: che chi si laurea o si diploma resti al suo paese a svolgere il lavoro per cui ha studiato o è stato mantenuto. Con molta retorica oggi si dice che non dobbiamo regalare pesci, ma insegnare a pescare; poi però non si fa né l’uno né l’altro.

Se vogliamo fermare la marea umana che minaccia di invadere l’Europa, forgiare una nuova classe dirigente africana è diventato un imperativo ineluttabile. Prima di partire mi fermai ad Accra, la capitale del Ghana, mi dirottarono all’Università dei mestieri per alcune visite. Lì nascevano tecnici di computer, piccoli imprenditori, artigiani, con la formula del microcredito.

Qualcosa laggiù si sta muovendo.

Tags: AfricaGhanaimmigrazioneimmigrazione clandestinasanitàSud Africa
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Commenti 1

  1. mal d'africa says:
    8 anni fa

    articolo senza profondità, e poca conoscenza dell’Africa,

    Rispondi

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