Una questione attualissima, riguardante tanto la normativa vigente quanto il reale, e autentico, concretizzarsi della medesima nelle scelte di vita dei singoli cittadini, riguarda la piena applicabilità del principio della partecipazione politica, espresso con sintesi mirabile nell’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Il tema della partecipazione politica dei cittadini è, in realtà, ampiamente presente nella Costituzione, ritornando più volte, come monito, compito, dovere e responsabilità: “La Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2); pone ad ogni cittadino il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 4); prevede l’espropriazione di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, fonti di energia o situazioni di monopolio, e abbiano carattere di preminente interesse pubblico, non solo a favore dello Stato o degli altri enti pubblici, ma anche di comunità di lavoratori o di utenti (art. 43); riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, presumibilmente tanto pubbliche quanto private (art. 46). Altri spunti sono eventualmente ravvisabili in altre disposizioni normative, fra cui l’art. 49 in tema di partiti politici, ed altre ancora in tema di organizzazioni sindacali, limiti alla proprietà e alla libertà di iniziativa economica privata, di cooperazione mutualistica, di risparmio, di proprietà della casa, delle aziende contadine, delle azioni” (G. Ambrosini, Costituzione italiana, Einaudi, Torino, 1975, p. LXX).
La Costituzione mostra, quindi, una particolare attenzione e sensibilità nei confronti del tema della partecipazione, riconoscendo, tuttavia, l’esistenza di certune criticità e difficoltà, storicamente situate e determinate, in grado di rallentare, o di frenare del tutto, l’evoluzione fattiva di tale presa in carico, di codesta istanza, da parte del comune cittadino: “Nella direzione della partecipazione la Costituzione non è rimasta indifferente. In almeno due casi la parola partecipazione figura nel testo della Costituzione. Quando si attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli socio-economici che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma 2); e quando si prevede la partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia (art. 102, comma 3)” (Ibidem).

Tra il proposito e la sua realizzazione vi è sempre uno scarto, uno iato, che se da un lato frustra gli intendimenti iniziali, dall’altro, invece, funge da stimolo, da provocazione, da spinta incessante, a impegnarsi nel confronto con la natura magmatica della storia umana, evitando progetti utopistici, chimerici, privi del necessario vigore e della giusta maturità psicofisica. Per tali ragioni, la Costituzione stessa indicava alcune strade da percorrere, quali la formazione di un Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (art. 99) che coinvolgesse gli esperti e i rappresentanti di tutte le categorie produttive, seppure a mero titolo consultivo e restando nell’alveo dell’iniziativa legislativa (Cfr. Ivi, pp. LXX-LXXI), o il rafforzamento di forme di partecipazione diretta dei cittadini all’amministrazione della giustizia, della scuola o di altri ambiti della società civile (Cfr. Ivi, LXXI-LXXII).
Tali nobili proponimenti, tuttavia, spesso sono stati largamente disattesi: “È rimasta la constatazione, a livello giuridico, che l’ipotesi di partecipazione è sostanzialmente elusa in contrasto con spinte che muovono dal mondo del lavoro, da quello studentesco, dalle istituzioni sociali. L’unica fra le norme prima elencate che ha trovato attuazione, relativa all’istituzione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, ha mostrato l’incapacità di gestire legislativamente e politicamente quest’organo, privo di poteri effettivi, di composizione corporativistica, non incidente in alcun modo nei settori di sua pertinenza. Un organo di cui non a caso si è chiesta da più parti la soppressione, come inutile e ambiguo, carente di ogni significato partecipativo. Anche in un ambito in cui la partecipazione poteva trovare sbocchi immediati, la partecipazione diretta dei cittadini all’amministrazione della giustizia, si è rimasti ancorati a ipotesi marginali (la presenza di cittadini con certi requisiti culturali nelle Corti di Assise e di Assise d’Appello, o di esperti nei tribunali dei minorenni e nelle sezioni specializzate dei tribunali, o infine di pretori onorari e di conciliatori investiti di funzioni minori). È questa una partecipazione fittizia, destinata da un lato a dare l’apparenza dell’attuazione costituzionale, dall’altro a restringere nelle mani della corporazione giudiziaria (politicamente incontrollata) un potere che non è neutrale e condiziona, nel suo esercizio, spinte che provengono dagli strati più attivi della società. Ipotesi di partecipazione sono state tentate in altri settori, come nella scuola, con risultati deludenti per le aspettative degli utenti e senza attuare un reale mutamento dei centri decisionali” (Ibidem).
In questa precisa situazione quale ruolo avocano a sé i differenti partiti politici? Come può la politica dare respiro, e realizzazione, a un pieno coinvolgimento del cittadino nella gestione della vita pubblica del proprio Paese?
I partiti vengono spesso considerati un luogo di interessi altri, guardati con ostilità e diffidenza, dimenticandosi, tuttavia, come “nella battaglia per l’emancipazione sono proprio le associazioni politiche e le organizzazioni sindacali a venire sempre più decisamente in primo piano” (R. Marra, Lineamenti fondamentali di diritto pubblico. Con nozioni di diritto del lavoro e legislazione sociale, Zanichelli, Bologna, 1997, p. 236), sin dalla fine dell’Ottocento e, in modo ancora più evidente, con l’estensione del suffragio universale. L’ingresso, nella scena politica nazionale e locale, di soggetti e gruppi sociali precedentemente esclusi da qualsiasi fase o momento decisionale, ha consentito ai partiti di realizzare una “rapida evoluzione a organizzazioni stabili, rappresentative di interessi di classi o settori specifici della società: delle classi lavoratrici, ma anche della classe borghese, del lavoro autonomo, del ceto impiegatizio, e così via” (Ibidem).
I partiti, in un secondo momento, hanno dovuto, necessariamente, assumere un profilo maggiormente solido e strutturato, onde esercitare con efficacia le mansioni proprie di governo e di amministrazione, coltivando la professionalità, la competenza, la qualità personale e il merito: “È importante sottolineare che con la nascita del partito moderno, da un lato l’impegno politico è divenuto un’attività professionale vera e propria, che richiede competenze specifiche da parte dei capi-partito, e inoltre l’impiego di strutture organizzative permanenti e di funzionari specializzati. E dall’altro è stata influenzata in maniera determinante l’articolazione dei poteri della sovranità, e dunque la forma di governo. I partiti politici sono divenuti infatti la cinghia di trasmissione fondamentale tra il corpo elettorale e i vertici dello Stato, e in particolare del Parlamento e del Governo” (Ibidem).

Il rischio di una deriva partitocratica odierna e di uno scollamento dai reali interessi del Paese è davanti agli occhi di tutti, frutto anche della crisi delle grandi ideologie, nonché dell’avvento di forze, o sarebbe meglio dire movimenti, privi di identità, storia e cultura politica, dove la formazione, la militanza e la competenza hanno finito per contare poco o nulla.
I partiti sono quindi chiamati a realizzare quell’altissimo ideale a loro assegnato dalla Costituzione stessa, cioè il compito di fungere da anello di “congiunzione tra l’elettorato e i vertici dello Stato” (Ivi, p. 237), facendo leva sul “senso di responsabilità e [sulla] correttezza istituzionale dei leader politici” (Ibidem). Il metodo democratico, proprio della nostra Repubblica, conferisce ai cittadini la possibilità di esercitare la libertà politica, in una duplice accezione: “Tale libertà presenta almeno un duplice profilo. È innanzitutto nei confronti dello Stato. Ciò vuol dire che i pubblici poteri non possono intralciare la costituzione di partiti, né d’altra parte favorire un partito rispetto ad un altro” (Ivi, pp. 237-238). Una possibilità che non può certo essere imposta, ma soltanto offerta e garantita: “La libertà politica significa inoltre libertà dei singoli cittadini di far parte o meno di un partito, di uscirne in qualsiasi momento, di dar vita a formazioni politiche nuove” (Ivi, p. 238).
Per ristabilire una salda alleanza tra partiti e cittadini risulta necessario, a mio avviso, riguadagnare la centralità del Parlamento, di sovente scavalcato e umiliato, nelle sue più alte prerogative, quale luogo e simbolo di dialogo, di confronto, di dibattito tra molteplici posizioni, culture e istanze, espressioni di valori, pensieri e identità. Come giustamente asserisce il noto costituzionalista Antonio D’Andrea, nel suo contributo intitolato Costituzione e forma di governo in Italia: “Non si rinunci comunque ad avere un Parlamento forte ed in grado di poter condizionare e controllare efficacemente la politica del Governo e di chi è chiamato a guidarlo anziché rassegnarsi ad un parlamento supino e ricattabile in ogni istante da parte dell’organo governante quantunque prescelto in modo diretto dalla maggioranza del corpo elettorale. La sede parlamentare, per le sue conosciute caratteristiche strutturali, resta, a mio parere, il solo luogo istituzionale “aperto” nel quale si proietta l’ombra lunga del confronto che coinvolge le forze politiche e sociali del Paese, confronto che né si esaurisce dopo il voto né si sospende in attesa della nuova, inevitabile, verifica elettorale: la dialettica democratica insomma ha da sempre bisogno di Assemblee elettive “vive” per soppesare giorno dopo giorno il gradimento o l’ostilità nei riguardi del Governo – inteso come organo dinamico che opera ed agisce nella situazione data – ed eventualmente, se non per cambiarlo, almeno per correggerne la (o suggerire la correzione della sua) rotta” (A. D’Andrea, Costituzione e forma di governo in Italia, in La Costituzione della Repubblica Italiana. Le radici, il cammino, Atti del Convegno e del Corso di lezioni (Bergamo, Ottobre – Dicembre 2005), a cura di B. Pezzini e M. Baronchelli, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, Rassegna dell’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, anno 36°, n. 68, dicembre 2007, p. 207).
Sovranità popolare, rispetto delle prerogative parlamentari, coerenza e responsabilità istituzionali, amore per la Patria e spirito di servizio: non esiste viatico migliore per riavvicinare i cittadini alle differenti proposte partitiche italiane.