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Cosa resta degli Oscar

di Tommaso de Brabant
17 Marzo 2023
in Home, Società&Tendenze
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Cosa resta degli Oscar
       

Sono trascorsi alcuni giorni dagli Oscar. Perché scriverne soltanto adesso? Per osservane gli strascichi, che non sono stati nulla di che: si è giusto svegliato un regista che avrebbe potuto essere grandissimo, Paul Schrader, a deprecare l’ennesima cerimonia “woke”; ci sono state edizioni, sotto quell’aspetto, assai peggiori. Nulla di che, soltanto chiacchiericcio da “social network”, due filmati sono diventati virali: il volto rabbuiato di Angela Bassett sconfitta da Jamie Lee Curtis per la statuetta di miglior attrice non protagonista, e le risposte di Hugh Grant alle domande idiote d’una modella improvvisata inviata (“Sei emozionato?” “No”, “Che abito indossi?” “Il mio”).

Anche stavolta insomma la cerimonia degli Oscar è passata alle cronache più per gli episodi, nemmeno tanto belli, di contorno; come quella dello scorso anno (durante la quale, a una battuta idiota del comico Chris Rock sull’alopecia della moglie, Will Smith – poi premiato, ma non per il gesto: bensì per aver interpretato il padre delle sorelle tenniste Williams, capirai che impresa artistica – rispose prima ridendo, poi colpendolo con un vigoroso ceffone, quindi inveendo ad altissima voce). Gli Oscar sono ormai come il festival di Sanremo: là film brutti sovrastati da episodi patetici, qui canzoni orrende oscurate da provocazioni a encefalogramma piatto.

Entrambe le edizioni hanno visto un film irlandese entrare alle premiazioni da papa e uscirne da cardinale: bottino di nomination sia per il cerchiobottista “Belfast” di Branagh che per il bel “Gli spiriti dell’isola” di McDonagh, ma pochissime statuette. Entrambe le edizioni hanno visto un’attrice di vaglia premiata per uno dei film peggiori della sua carriera: l’anno scorso Jessica Chastain per “Gli occhi di Tammy Faye” (piattissimo biopic dedicato a una figura che nell’immaginario pop degli USA corrisponde, in Italia, a Wanna Marchi), stavolta Michelle Yeoh per “Everything Everywhere All At Once”, stupidissimo e tedioso baraccone sul metaverso. L’anno scorso non vi fu un dominio di un solo film: stavolta invece proprio “Everything Everywhere All at Once” ha fatto razzia di Oscar, sbaragliando “The Fabelmans” (pallosissima elegia di Steven Spielberg sulla sua famiglia e sulla sua cinefilia: e chi se ne strafrega), “The Whale” (i giorni decisivi nella vita d’un professore di letteratura diventato terribilmente obeso dopo la perdita del compagno, per il quale aveva lasciato moglie e figlia) e, appunto, “Gli spiriti dell’isola”.

Solo verdetto condivisibile (oltre alla batosta di Spielberg), la statuetta a Brendan Fraser, che era già bravo da atletico e simpatico protagonista di commedie e film d’azione (lo rese celebre “La mummia”), dopo di che si è perso per una storiaccia (un produttore del quale respinse le avance gli precluse varie possibilità, facendo piombare Fraser in una spirale di depressione che lo portò a cercare rifugio nel cibo, perdendo la forma fisica – non gravemente quanto il personaggio del suo film). “The Whale” e Fraser sono come “Hammamet” e Favino: film non eccellenti ma nobilitati da grandi performance dei loro protagonisti (e dal trucco: premiato con l’altra statuetta vinta da “The Whale”. Ingiusto il trattamento riservato a uno dei grandi film dell’anno scorso, “Elvis” di Baz Luhrmann: il bravissimo protagonista, Austin Butler, ha avuto la sventura di capitare nell’anno della rinascita di Fraser; ma al notevole biopic del re di Graceland qualcosa si sarebbe potuto assegnare.

Invece no, precedenza alle puttanate. La sopracitata Angela Bassett era candidata alla miglior attrice non protagonista per “Wakanda Forever”, ennesimo capitolo dei film tratti in serie dai fumetti Marvel (ormai sono un’industria a sé). “Everything Everywhere All at Once” (traducibile “Tutto, dappertutto, tutto insieme”) è una cervellotica (in apparenza) cretinata: eppure, i film che sbancano a Hollywood sono questi, diciamolo senza paura delle inevitabili accuse di snobismo. In alcune delle ultime classifiche di “migliori film di sempre” stilate dai lettori di riviste e siti per cinefili, i soli film risalenti al XX secolo sono i tre “Guerre Stellari” classici; poi, qualcuno torna al 2001 giusto per il primo “Il Signore degli Anelli”; il resto solo soltanto fumettoni dell’ultimo lustro. La Generazione Z va al cinema col muso attaccato allo smartphone e senza mai aver visto né un film della “Golden Era” di Hollywood, né uno della rinascita degli anni ’70, figurarsi qualcosa di europeo. Come disse William Friedkin nell’estate 2007 alla Milanesiana: a Hollywood non si fanno più film, si fanno giochi per la Playstation. Qualche anno dopo si può aggiungere: giochi e propaganda – i film più premiati degli ultimi anni sono affollati da omosessuali, bisessuali, tizi dall’identità fluida, transgender operati ma anche no, gente che è qualcosa ma si identifica come qualcosa d’altro.

Hollywood non rappresenta il cinema, e nemmeno gli Oscar rappresentano Hollywood. Sono pur sempre il premio che è stato riconosciuto a Orson Welles soltanto “alla carriera”; assegnato a “Rocky” al posto di “Taxi Driver”; a “Kramer contro Kramer” e non ad “Apocalypse Now” (e Marlon Brando non ebbe nemmeno la nomination); il premio per il quale Christopher Plummer, soltanto perché interpretava un omosessuale, fu preferito a Max Von Sydow (un attore che gli era di parecchio superiore); rifilato a mediocri come Jennifer Lawrence, Brie Larson, Frances McDormand, Cuba Gooding jr., Adrien Brody, Jamie Foxx, Eddie Redmayne, Will Smith. Non rappresentano il cinema mondiale né quello americano, però offrono qualche segnale sullo stato della cultura nella quale viviamo. Un immaginario collettivo senza immaginazione: una volta il cinema di massa offriva figure, “miti”: dal Padrino a James Bond, dalla Monroe a Bogart; adesso, Hollywood sforna in una ripetizione invariabile film sui supereroi sempre uguali a se stessi, cartelloni pubblicitari del metaverso, e propaganda gender. Una industria dell’intrattenimento senza qualità: se il miglior attore dell’anno scorso è stato un signore in grado di urlare “tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua f…a bocca” in mondovisione, il livello non sembra altissimo.

Da anni si auspica la fine del festival di Sanremo che, dopo alcuni anni in cui pareva in fase terminale, a suon di scandalucci patetici e di ultra-conformisti che forti di sapersi maggioranza fanno la rivoluzione culturale, è tornato uno spettacolo di successo. C’è quindi da temere che gli Oscar sopravviveranno ancora per parecchio.

Sta a vedere se sopravviverà la cultura occidentale.

Tags: cinemaHollywood
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