Ci sono episodi che, per quanto marginali, finiscono per rappresentare il segno dei tempi molto più di tante dotte dissertazioni.
Questo è certamente il caso di quanto sta avvenendo nella lontana baia di Assab. Un nome, dal vago sapore salgariano, che ai più dirà poco o nulla, ma che a qualcuno ancora ricorderà l’inizio dell’avventura coloniale italiana. E’ in quel lontano lembo d’Eritrea che, nel 1869, la società di navigazione Rubattino ottenne la prima concessione per lo stabilimento di una stazione di rifornimento per i suoi bastimenti. Concessione che ben presto fu nazionalizzata.
Quello, dunque, il cuore della “colonia primigenia”, lì i primi investimenti italiani nel corno d’Africa – o d’Affrica come ancora si leggeva su alcune carte dell’epoca -, da quella terra aspra e bellissima provenivano quei guerrieri coraggiosi e fedeli destinati a formare i più bei battaglioni coloniali che hanno servito sotto la bandiera d’Italia.
Ricordi di un tempo che fu. Ma non solo. Ed a testimoniarlo c’è il discreto, ma intenso lavoro che in questi mesi sta interessando l’area dove sorgeva il porto costruito dagli italiani. Solo che oggi sui cantieri in cui si lavora per rinforzare ed ampliare banchine, per tirare su depositi ed edifici sventola la bandiera degli Emirati Arabi Uniti.
La petrolmonarchia del Golfo continua a proporsi come attore di primo piano, anche in campo militare, nella macroregione della penisola arabica e dell’oceano Indiano occidentale. Tanto da investire nella realizzazione di una base di appoggio logistica per la propria marina – e forse per distaccamenti di forze speciali e di velivoli da combattimento nel vicino aeroporto di Assab – in Eritrea. Così vicina a quello Yemen dove gli emiratini combattono contro gli Houti.
Gli emiri, dunque, soppiantando di fatto nell’area quel che restava dell’influenza italiana. Perché alla presenza militare segue, solitamente, quella commerciale e precede quella politica.
Vero che il nostro Paese dispone nella vicina Gibuti – nazione che sembra aver fatto dell’ospitalità a forze armate straniere nel proprio territorio una voce del bilancio dello Stato – di una propria base militare, ma questo se garantisce appoggio logistico alle unità che operano nell’area, di certo non rappresenta segnale di solida presenza politica nell’area.
Vuoi perché a Gibuti -saldamente nell’area di influenza francese- sono in tanti ormai ad avere basi militari, vuoi perché la traccia di una presenza italiana nel corno d’Africa appare ormai sempre più evanescente. In Eritrea così come nella vicina Somalia, dove pure ai tempi del presidente-dittatore Siad Barre tante risorse furono investite dal Belpaese. Non tutte ben indirizzare evidentemente, se da oltre un ventennio l’Italia non riesce a svolgere un ruolo significativo nell’infinita crisi somala.
Chiaramente abbiamo imparato poco o nulla, più la seconda, dai “cugini” d’oltralpe: solida e pienamente operativa la presenza militare – e politica, dunque economica – di Parigi nelle ex colonie dell’Africa centrale alle prese con la guerriglia di movimenti separatisti e/o islamisti. Anzi, la Francia gioca talmente bene su quello scacchiere da permettersi invasioni di campo come quella del 2011, quando fu il governo di Parigi a decidere di intervenire militarmente in Libia contro Gheddafi. Trascinando con sé degli alleati più che riluttanti.
In quel caso – a dispetto del risultato che non è certo stato quello sperato da Sarkozy – l’Italia ha incassato una doppia sconfitta: ha dovuto ripudiare un alleato – scomodo, ma pur sempre alleato – e mettere a rischio la propria egemonia nel settore petrolifero libico. A tacere del discorso relativo ai flussi migratori.
Lezione appresa? A scorrere le cronache di questi giorni non sembra proprio.