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Il genocidio armeno. Un secolo fa e sembra oggi

di Domenico Bonvegna
5 Settembre 2015
in Home, Mondi
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Il genocidio armeno. Un secolo fa e sembra oggi
       

Lo storico inglese Robert Conquest ha definito in un libro il Novecento, il secolo delle idee assassine. In soli 100 anni, le ideologie, figlie del giacobinismo della Rivoluzione Francese, da quella socialcomunista a quella nazionalsocialista, hanno provocato milioni di morti. Non solo le ideologie, anche il fondamentalismo religioso ha contribuito alle carneficine. Pensate i cristiani uccisi a causa della loro fede, nel solo novecento, secondo Antonio Socci, sono stati ben 45 milioni. Proprio all’inizio del secolo, in tre fasi, fino al 1920, oltre un milione di Armeni, per lo più cristiani, sono stati annientati dai turchi. Quello degli armeni è un genocidio poco conosciuto e forse ancora da ben documentare, come evidenzia il libro , Grande Male. Medz Yeghern. Turchia 1909. Un testimone del massacro degli Armeni, pubblicato dalle edizioni San Paolo (p.192, 2008), scritto dal giornalista francese, Raphael Stainville.

Il reportage di Stainville si snoda su due piani temporali diversi, ma paralleli, per una parte nel presente e per l’altra nel passato. All’inizio della narrazione il giovane giornalista di Le Figaro in viaggio a piedi da Parigi a Gerusalemme, viene ospitato da alcune suore italiane che si occupano della chiesa di San Paolo in Adana, città della provincia della Cilicia, nell’Anatolia sud-orientale, tre suorine missionarie, Antonia, Libera e Antonella, una di loro gli affida in lettura un misterioso manoscritto trovato tra le carte disordinate della povera biblioteca della chiesa e con voce ferma gli intima: “non tagliare nulla! Non una parola, non una virgola”. Nella nota introduttiva di Eleonora Bellini si legge: “All’apertura del manoscritto, incredulità e sgomento dapprima, indignazione e orrore poi, si impadroniscono di Stainville e l’aprile del 1909, nel quale si scatenarono i massacri degli armeni nella città di Adana e nella sua provincia, torna a vivere”.

Stainville ci tiene ad identificare l’autore del manoscritto, del diario, così ritorna in Turchia, e attraverso estenuanti ricerche, fatte di testimonianze, di fotografie e di documenti, riesce a risalire all’autore, è un padre gesuita del collegio San Paolo, padre Rigal. Infatti, il lavoro di Stainville, è un ottimo esempio di seria e scientifica ricerca storica.

Scrivendo questo libro, il giovane giornalista, si considera una specie di esecutore testamentario, ha trascritto il diario del gesuita che ha vissuto i giorni delle stragi dei poveri armeni. “La mia penna incerta – scrive il giornalista di Figaro – non ha fatto che ripassare sopra le lettere di sangue di un doloroso palinsesto”. Tutto inizia il mercoledì di Pasqua del 1909. Ore undici del mattino. “Da ogni parte risuonava il lugubre grido: “Askna giaurs, askna!” (uccidete gli infedeli, uccideteli!)” Il primo a cadere fu un ricco armeno, David Ourfalian, un uomo si lanciò su di lui e non gli lasciò scampo: “in nome di Allah l’altissimo è da te che cominciamo. Crollò senza vita, mentre, nello stesso cortile del governatore, uomini venivano sezionati come maiali, sgozzati in un assalto all’arma bianca”(p.31). Il genocidio degli Armeni si situa in un contesto sociale già fortemente eccitato dal ritorno del mito della Grande Turchia, il governo ultranazionalista dei Giovani Turchi (autoproclamatosi peraltro espressamente come l’incarnazione in Turchia degli ideali rivoluzionari di liberté, egalité, fraternité), civili e militari turchi si diedero a efferatezze inaudite che in quei giorni sconvolsero gli stessi osservatori internazionali. I massacri di Adana segnano la seconda tappa di questo genocidio. L’ultima, quella decisiva, avverrà come noto nel corso della Prima Guerra Mondiale (1914-1918) quando, essendo le principali potenze europee impegnate al fronte, il regime dei Giovani Turchi avrà finalmente mano libera per risolvere una volta per tutte, come pure si esprimeranno cinicamente alcuni dei suoi dirigenti, la fastidiosa “questione armena”, quella cioè di un popolo che vuole rimanere a tutti i costi cristiano e rifiuta decisamente sia l’islam che l’ideologia panturchista.

I turchi hanno sempre sostenuto che la colpa del massacro è degli stessi Armeni perché si erano rivoltati prendendo le armi. Gli armeni per sfuggire alla morte sicura cercavano rifugio nel collegio delle suore, mentre la sparatoria aumentava, “gli uomini cadevano per strada come mosche . Dalle finestre del dormitorio si poteva vedere la povera gente fuggire, sperduta, nei vicoli. Bambini andavano a sbattere contro i muri, spiaccicandosi contro con le braccia aperte, cadevano con il volto macchiato di sangue o il petto squarciato. I bachi-bouzuouks (cavalieri dell’antico esercito turco), in bande di trenta o quaranta, sparavano colpi di fucile alle gambe dei fuggiaschi per immobilizzarli, e poi li torturavano”(p.35)

Tra urla e grida il saccheggio delle case diventava metodico. “A colpi d’ascia, i banditi forzavano le porte (…) C’erano vittime da dilaniare e da torturare. Quando tutte le persone erano morte, gettavano i mobili, la biancheria, e gli oggetti più disparati in una carretta che stazionava per strada; la casa veniva ‘passata al petrolio’ con una pompa, le si dava fuoco e si procedeva alla successiva”(p.35).

Il racconto continua nel 5° capitolo, siamo venerdì 16 aprile. “Gli assalitori procedevano con metodo, avanzando progressivamente all’interno del quartiere armeno, facendo attenzione a risparmiare le case che avrebbero potuto trasmettere le fiamme alle case dei musulmani, radendo al suolo tutto il resto”(54).

Il diario di padre Rigal, che è un testimone oculare, fa una minuziosa descrizione di particolari di inaudita crudeltà e violenza, descrivendo i saccheggi nelle fattorie nei dintorni di Adana, a questo proposito il padre gesuita scrive: “Alcuni armeni furono crocifissi su tavole, assi, porte; alcune ragazze rapite, violentate o sventrate a colpi di coltello; donne e bambini scorticati vivi; indicibili crimini furono compiuti su bambine di sette od otto anni. I boia portavano in giro bimbi infilzati in cima alle baionette, giocavano con le teste mozzate di fresco; lanciavano per aria bambini piccolissimi e li raccoglievano sulla punta dei coltelli, sotto gli occhi dei genitori incatenati, quando non lasciavano cadere a terra i loro corpi contorti”(p. 63). E’ una macabra descrizione che a volte, come lui stesso scrive, si astiene dai dettagli più orrendi. I feriti rifugiati dentro il collegio dei religiosi erano orribilmente feriti dai colpi d’ascia o di coltello, per non parlare delle pallottole ricevute. Le suore, che avevano organizzato un ambulatorio, prontamente cucivano e ricucivano le ferite dei malcapitati. “Chi non ha vissuto queste giornate non può farsi un’idea precisa dell’indicibile terrore che ci avvolse durante quei quindici giorni e quelle quindici notti di angoscia”.

Per i lettori italiani è interessante citare un passaggio di un articolo de La Civiltà Cattolica(E. Rosa,“Le recenti stragi di Adana”, 1909, II, p. 740): “ A poche miglia da una rada ove sorgevano corazzate di nazioni civili, da una città dove erano i loro consoli ed i loro rappresentanti, succedeva per mezzo mese un macello di popolazioni innocenti senza che una mano di uomini risoluti o un passo vigoroso di potenze europee valesse ad impedirlo”. La rivista dei gesuiti, che utilizzava informazioni di prima mano, provenienti dai propri religiosi missionari in Turchia (nel collegio maschile di Adana insegnavano in quell’anno una trentina di padri), faceva notare la responsabilità dei governi occidentali, il loro silenzio se non assoluto, le proteste tardive, distaccate, inefficaci.

Al termine del complesso reportage le lontane ombre dei crimini del secolo scorso sembrano così confondersi con le tante inquietudini del presente di un popolo, quello turco, che lotta per l’affermazione della propria identità, costantemente in bilico fra laicità e fondamentalismo, in un Paese dai mille volti in cui a sollevare la spinosa questione-armena resta oggi solo qualche manoscritto del passato. Eppure, nel Paese che accolse la prima evangelizzazione della Chiesa primitiva e che vide nascere l’apostolo delle genti (San Paolo), le chiese (le poche rimaste) esistono ancora, pur nascoste dai minareti, ma pubblicamente tacciono, come se fossero rimaste prigioniere di un passato che non passa.

Il Paese che meno di un secolo fa contava più di un milione di cristiani ora ne conta infatti poche migliaia, osservati con superficialità e trattati come uomini che non possiedono valore né dignità: derisi, umiliati, ghettizzati. Prima di quel mercoledì di Pasqua del 1909 la stessa Adana contava circa novecento famiglie armene, oggi in quel che resta delle case più volte distrutte e altrettante ricostruite sono rimasti appena ventotto uomini e sessanta donne.

Tags: Armeniacristiani d'orientegenocidio armenostoriaTurchia
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