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Home Penna Pellicola Palco

Risorgimento: quando Londra condannò il Borbone

di Marco Valle
13 Giugno 2012
in Penna Pellicola Palco
0
Risorgimento: quando Londra condannò il Borbone
       

A distanza di 151 anni dal fatidico 1860, il processo d’indipendenza nazionale rimane ancora una questione aperta, una narrazione incompleta, talvolta monca: molti rimangono gli aspetti trascurati, tante le domande inevase e non pochi sono i capitoli oscurati o rimossi.

Nulla di nuovo. Come ci avvertirono Volpe, Romeo e Rumi — tre giganti da riscoprire e studiare con attenzione — il sorgere e il consolidarsi della “Nuova Italia” non era (e non è) un’equazione risolvibile su schemi ideologici obsoleti o seguendo rassicuranti percorsi lineari o/e suggestioni sentimentali. L’Unità fu — con buona pace dei retori del manierismo risorgimentalista, dei petulanti aedi del “Risorgimento tradito” e degli insopportabili orfani del Kaiser, del Papa Re e degli antichi signori — un evento difficile, contrastato e terribilmente complicato.

Certo, l’unificazione fu un’accelerazione brutale ed elitistica, un atto d’imperio di una minoranza dinamica su una maggioranza indifferente o rassegnata, una frattura violenta tra le diverse anime dell’identità nazionale. Al tempo stesso la conquista dell’Indipendenza nazionale rappresenta il momento fondante della modernizzazione italiana; il necessario passaggio da un panorama post feudale e rurale (frammentato e perdente) a un paesaggio urbano e industriale (unitario e competitivo); l’affacciarsi di nuove figure sociali e la condanna di ceti parassitari, decaduti e decadenti; una tempesta culturale. Ma, soprattutto, il Risorgimento rappresenta il ritorno di un intero popolo — dopo una lunga vacanza nell’insignificanza — nella Storia.

Su questo scenario complesso e, inevitabilmente, contradditorio, in cui — accanto allo sviluppo del movimento nazionale, un percorso intricato e tragico, punteggiato da congiure, insurrezioni, forche, prigioni, battaglie, vittorie (poche), delusioni (tante), risolto nel ’59 da un successo talmente inatteso che persino l’algido professor Fisichella in un suo recente libro definì il ‘61 un evento  “miracoloso” —,  s’intrecciarono molteplici fattori, endogeni ed esogeni e tutti importanti e non sempre adeguatamente indagati dagli storici.

Tra gli elementi meno esplorati dagli studiosi vi è — ad esempio — il ruolo tutt’altro che secondario sostenuto dalla Gran Bretagna nel contesto italiano del tempo. Una presenza felpata ma, come ci avverte Eugenio Di Rienzo nel suo denso saggio dedicato a “Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee 1830-1861”, ingombrante e, nei momenti topici, assolutamente decisiva. Con sapienza, l’autore ricostruisce, partendo da una visuale inconsueta quanto innovativa — le fasi terminali dello Stato Borbonico — il micidiale “gioco delle ombre” sviluppato dai politici londinesi verso e attraverso l’Italia. Una scelta non casuale. Dall’osservatorio napoletano, Di Rienzo rintraccia e individua con acutezza le linee di vetta della spregiudicata politica mediterranea sviluppata dai governi albionici in opposizione o/e — in base agli interessi del momento — in collaborazione con Vienna e Parigi, Berlino, Pietroburgo, Madrid e Torino. Un esercizio di grande politica in cui si misurarono volontà di potenza, solidi interessi economici, visioni del mondo contrapposte.

Re Ferdinando e la guerra dello zolfo

Per la Corte di San Giacomo l’Italia post napoleonica — un mosaico di regni, viceregni, granducati, ducati e domini teocratici — rappresentava semplicemente un utile tassello del disegno imperiale. Nulla di più. Attenti agli equilibri continentali, nel 1815 gli inglesi avevano lasciato cadere — convinti che la causa autonomista lombarda non valesse una crisi con l’Austria— gli appelli dei magnati milanesi e delle logge meneghine filo britanniche strette attorno a Federico Confalonieri; sempre in quell’anno Londra, gelosa della sua egemonia mediterranea, rifiutò di cedere al regno di Sardegna — desideroso, dopo l’acquisizione di Genova, di dotarsi di una propria forza navale — otto vecchi vascelli tra quelli che la Royal Navy stava disarmando dopo le “french wars”. Pochi anni dopo Confalonieri, patrizio vanesio ma coraggioso, finì allo Spielberg assieme a Pellico e Maroncelli, ma i Savoia non rinunciarono al loro sogno e costruirono a loro spese il primo nucleo della Regia Marina, fonte un secolo più tardi di grandi dispiaceri per gli ammiragli londinesi.

Diverso fu il caso del Regno delle Due Sicilie, il più grande “piccolo Stato” dello Stivale. La Gran Bretagna, protettrice della dinastia durante la temperie napoleonica, considerava la monarchia borbonica una realtà satellite (in un infido condomino con Vienna) e la Sicilia un proprio dominio indiretto. In ogni caso, per Londra, il Meridione d’Italia era un dato acquisito. Sicuro.

Da qui, nel novembre 1830, la sorpresa e l’irritazione dei ministri di Sua Maestà Britannica nell’apprendere le intenzioni del nuovo sovrano, Ferdinando II di Borbone. Già dall’indomani della sua incoronazione, il giovane re — un uomo brutto, ruvido ma decisamente intelligente — dichiarò la sua intenzione di sganciarsi da ogni tutela e influenza straniera. Come annotava Don Benedetto Croce nella sua “Storia del Regno di Napoli”, Ferdinando concepiva lo Stato duosiciliano come un entità autonoma «nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per se».

Una pretesa inaudita per l’Inghilterra che solo pochi mesi dopo volle dare all’inquieto monarca un primo avvertimento. Si trattò di una vicenda surreale, degna del miglior Verne. In breve, ecco la storia. Nell’estate del 1831 nei pressi di Pantelleria emerse dal mare un piccola isola subito ribattezzata Ferdinandea e immediatamente incorporata nei domini borbonici. Infischiandosene delle rivendicazioni napoletane, gli inglesi con un blitz occuparono con il malfermo lembo di terra e vi innalzarono la Union Jack. Fu un atto d’imperio, una aperta violazione del diritto internazionale e un chiaro segnale a Ferdinando che, convinto delle sue ragioni, protestò violentemente. Fortunatamente nel dicembre dello stesso anno, proprio quando la tensione era all’acme,  l’isolotto — spaventato da tanto clamore — decise di togliere il disturbo e si inabbisò nelle profondità marine.

L’episodio non intimidì il Borbone, anzi. Nel 1834 il governo partenopeo lanciò una clamorosa sfida intrecciata alla talassocrazia britannica. In campo internazionale, Ferdinando rifiutò di schierarsi, come Londra e Parigi pretendevano, a favore di Isabella II contro lo zio Carlo nel conflitto — la prima “guerra carlista” — per la successione sul trono di Spagna a Ferdinando VII. Uno schiaffo pesante. Al tempo stesso, il Borbone non rinnovò la penalizzante e diseguale convenzione commerciale con la Gran Bretagna, preludio della “guerra dello zolfo”, il durissimo scontro geoeconomico che incrinò definitivamente i rapporti anglo-napoletani. Una botta ancor più dura.

Come avverte Di Rienzo nel suo libro, il controllo delle zolfatare siciliane era per Londra una questione strategica: «una quota rilevante della bilancia commerciale britannica era rappresentata dall’importazione di materie prime provenienti dalla Sicilia. L’ingente traffico era costituito da vino, olio, agrumi, nocciole e soprattutto dallo zolfo (utilizzato per la preparazione della soda artificiale, dell’acido solforico e della polvere da sparo), che copriva il 90 per cento della richiesta mondiale e di cui venti ditte inglesi avevano ottenuto, di fatto, la prerogativa esclusiva, per l’estrazione e lo sfruttamento, grazie al pagamento di un modico compenso».

Nel 1837, ormai insofferente delle ingerenze britanniche, Ferdinando decise di revocare la concessione per affidarla a un cartello francese. Le reazioni non si fecero attendere e presto si arrivò alla soglia di un confronto armato anglo-napoletano. Abbandonato dall’Austria — per Metternich “lo zolfo dell’Etna non valeva l’incendio dell’Europa” —,  il sovrano partenopeo fu costretto ad accettare nel 1840 la mediazione di Parigi e a risarcire le aziende britanniche. Per di più, nel 1845, Napoli dovette  sottoscrivere un nuovo atto commerciale — meno svantaggioso del precedente ma sempre penalizzante — con la Gran Bretagna. Ma nonostante l’accomodamento a lei favorevole, Londra non mutò atteggiamento: il Regno delle Due Sicilie era ormai una realtà ostile, da neutralizzare e/o da eliminare con ogni mezzo.

Prove di “democratic building”

Anticipando di un secolo e mezzo gli schemi impiegati negli ultimi decenni dagli anglo-americani in Medio Oriente (e ripreso solo ieri da Sarkozy e Cameron in Libia), i ministri della regina Vittoria scatenarono contro il pacifico e debole Stato duosiciliano una violenta campagna di stampa, podromica all’isolamento internazionale del piccolo regno.

La stampa londinese, immediatamente seguita dai suoi terminali europei, enfatizzò gli innegabili ritardi del governo napoletano, il lato pittoresco della dinastia, l’arretratezza del Paese. Le innumerevoli contraddizioni e difficoltà di un Paese difficile, plurale e terribilmente povero come erano le Due Sicilie vennero esasperati. Impietosamente.

Le gazzette ridicolizzarono i pochi ma significativi tentativi di modernizzazione attuati dal sovrano e ignorarono le responsabilità (e i lucrosi profitti) estorti dalle centrali finanziarie d’oltre Manica in Sicilia e nel Meridione d’Italia. L’autorevole “Times” giunse a suggerire una “spedizione punitiva”, simile a quella guidata dal commodoro Perry contro l’impero nipponico, poiché come gli Stati Uniti in Asia, anche l’impero inglese «non poteva tollerare l’esistenza di un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da Marsiglia». Un’ipotesi d’intervento che solo l’intervento di Vittoria, donna intelligente e meno avventata dei suoi ministri, bloccò in extremis.

In ogni caso, l’efficace quanto micidiale campagna di stampa —Murdoch, Blair e gli scriba de “l’Economist” non hanno inventato nulla…— convinse presto l’Europa intera dell’impresentabilità del regime ferdinandeo — paragonato molto disinvoltamente da lord Aberdeen alla “negazione di Dio”— e costrinse i governi a chiudere (la Gran Bretagna in primis e poi la Francia) o allentare (l’Austria e la Prussia) i rapporti diplomatici con Napoli. A Ferdinando rimase soltanto l’amicizia della troppa lontana Russia e la solidarietà della traballante teocrazia romana. Poca roba.

Ad aggravare la situazione, giunse la guerra di Crimea, uno spartiacque politico che spezzava definitivamente gli equilibri fissati dal Congresso di Vienna. A differenza del callido Cavour, Ferdinando non comprese l’importanza geopolitica di quel remoto conflitto sul Mar Nero. Mentre il Piemonte, con uno sforzo militare ed economico importante, segnalava la sua presenza sullo scenario internazionale e riapriva il dibattito sulla “questione italiana”, il Re di Napoli sceglieva una pericolosa  linea di “non belligeranza” filo russa. Un errore disastroso.

Sotto le mura di Sebastopoli s’infransero non solo le mire zariste ma anche le residue possibilità duosiciliane. A Napoli nessuno sembrò accorgersene. Alla durissima offensiva mediatica e diplomatica scatenata da Londra e Parigi (e alimentata da Torino), la classe dirigente borbonica dimostrò tutti i suoi limiti, la sua inadeguatezza. Vecchi d’età e politicamente obsoleti, chiusi in schemi superati e perdenti, i rappresentanti del Borbone — e il Borbone stesso — non ressero alla spinta del “mondo nuovo”. Al congresso di Parigi gli ambasciatori di Napoli vennero zittiti, allontanati. Umiliati.

Il Regno delle Due Sicilie non defunse sul Garigliano o a Gaeta, ma morì — silenziosamente, tristemente — in quel fatidico 1856, nei corridoi e nelle anticamere dei saloni parigini. Nessuno, al grande appuntamento delle potenze, voleva più intendere la voce e le ragioni di un piccolo, cocciuto sovrano.

 

Un intrigo internazionale

Il 4 giugno 1859 la Legione straniera e i granatieri della guardia imperiale espugnavano Magenta e l’otto giugno Napoleone III e Vittorio Emanuele II entravano trionfalmente a Milano. Pochi giorni dopo — per un singolare gioco del destino — Metternich e Ferdinando, i due principali campioni della Restaurazione, raggiunsero i loro avi. Un ciclo si chiudeva. Per sempre.

A questo punto la storia è nota. Sul trono di Napoli salì Francesco, giovane e inesperto, circondato da una corte d’inetti, da consiglieri inadeguati per età e intelligenza e da un ambiente familiare quanto meno imbarazzante. Il nuovo sovrano, a differenza del padre —un personaggio forse paranoico, culturalmente superato ma acuto e deciso  – si scoprì un uomo solo. In questa triste palude l’unica presenza positiva per Francesco fu la moglie, la fascinosa Maria Sofia. Ma la dignità del re e il coraggio della Wittelsbach nulla poterono contro la forza degli eventi.

Nel 1860 Cavour — dopo la crisi di Villafranca nuovamente primo ministro di Vittorio Emanuele —si convinse dell’estrema debolezza del regime borbonico e decise di “ignorare” la spedizione di Garibaldi. Con pragmatismo, il conte tracciò una spericolata ipotesi politica: se l’incursione garibaldina fosse fallita — come quella dei Bandiera o di Pisacane — la responsabilità del disastro stata addebitata ai mazziniani, in caso contrario il Regio esercito sarebbe intervenuto e avrebbe completato l’operazione, depurandola d’ogni umore rivoluzionario. E l’Unità, sotto lo scettro dei Savoia e nel segno del moderatismo, si sarebbe finalmente completata. Un perfetto esercizio di realismo politico.

Condizione fondamentale per la riuscita del macchinoso progetto rimaneva l’assenso delle potenze occidentali. Un problema notevole. Dopo la vittoriosa campagna del ’59, Napoleone III immaginava uno Stivale semplificato in tre/quattro entità (il Nord sabaudo, il Centro frazionato tra domini papali e un principato filo francese e il Sud affidato ad un erede di Murat); l’ambiziosa ipotesi risultava però assolutamente indigeribile per l’Inghilterra nemica dichiarata dei Borboni e tiepida amica del Piemonte ma sempre attenta alla sua primazia sul Mediterraneo.

Cavour giocò con abilità le sue carte e convinse i britannici ad appoggiare —in un logica antifrancese e pragmatica — la spedizione garibaldina e la successiva “normalizzazione ” sabauda; un contributo che si rivelò importante sia a Marsala che nella battaglia di Palermo e divenne determinante quando Londra rifiutò la propria partecipazione a un blocco navale nello Stretto, l’ultima ratio per impedire lo sbarco dei garibaldini in Calabria e la marcia su Napoli.

L’intera impresa per gli inglesi —nonostante successive polemiche nel Parlamento londinese —si rivelò un affare vantaggioso: con poca fatica e molta spregiudicatezza il Regno Unito aveva annientato i Borboni, vanificato ogni residua velleità austriaca sulla penisola, espulso dal Mediterraneo centrale la Francia, garantito le rotte verso Suez (pochi anni dopo il canale sarebbe divenuto una realtà). Ma, soprattutto, Londra riteneva d’aver posto sotto tutela la “nuova Italia”, una creatura ancora fragile e malferma, dalle frontiere insicure e dalle coste troppo lunghe e indifese.

Un calcolo astuto ma, nel tempo, errato. Del resto, la Storia  è un percorso intricato, affascinante. Spesso difficile da decifrare. La Storia riserva sorprese. Nonostante  l’improvvisa scomparsa di Cavour, le tante debolezze e gli innumerevoli errori di una classe dirigente che, come Gioacchino Volpe ricordava «viveva troppo nell’astrazione e poco conosceva il suo Paese» e i drammi di una crisi post-unitaria talmente lacerante, al punto che Massimo d’Azeglio pose apertamente nel ’62 la questione “del tenere Napoli o non tenerla”, ovvero di rinunciare al Mezzogiorno devastato dal brigantaggio e solidificare il regno sabaudo nel centro nord; nonostante tutto ciò (e molto altro) l’Italia superò — in modo spesso tortuoso e infingardo, altre volte (almeno dopo il 1922 con Mussolini e più tardi con Mattei) in modo aperto e chiaro — i ricatti e le ipoteche degli esosi contabili d’oltre Manica. Alla fine, il conto con la Gran Bretagna lo saldarono i “folgorini” ad El Alamein, i “marò” di Borghese a Malta, Suda, Alessandria, Gibilterra, i ragazzi triestini del 1953, i tecnici dell’Eni in ogni pozzo sottratto ai cartelli anglo-americani.

Un’ultima annotazione. Il saggio di Eugenio Di Rienzo pone numerosi interrogativi. Tutti scomodi e difficili. Uno in particolare: il lungo silenzio dell’Accademia, l’incredibile letargo degli storici. Come sottolinea il professore «la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza» ogni indagine sull’apporto albionico nel tracollo del Regno delle Due Sicilie, abbandonando l’imbarazzante tema alla generosa ma — con l’eccezione di personaggi come Sandro Vitale e pochi altri— spesso raffazzonata e poco credibile storiografia neo borbonica.

Probabilmente per molti — l’altro ieri, ieri e oggi —era meglio immaginarsi percorsi rassicuranti e/o ideologici piuttosto che ammettere, come sottolinea l’autore, che la “liberazione del Mezzogiorno” fu frutto non solo del coraggio dei volontari o del genio di Cavour ma anche «il risultato di un complesso e non trasparente intrigo internazionale in cui la potenza preponderante sullo scacchiere mediterraneo contribuì a porre fine, una volta per tutte, alle velleità di autonomia del più grande “Piccolo stato” della Penisola, giustificando una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea».

“Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee” è un libro da consigliare. Anche e soprattutto a chi — come chi scrive — è nato al di sopra del Po.

Eugenio Di Rienzo

Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee

pagg. 230 – euro 14

Rubbettino editore. 2012


Tags: BorboneCamillo CavourENIEugenio Di RienzoGran Bretagnaisola FerdinandeaMussoliniRegno delle Due SicilieRisorgimentoSiciliaunità nazionale
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