La Repubblica popolare cinese ha retto senza troppi danni (almeno apparentemente) la pandemia globale e prosegue nella sua espansione economica, politica e militare. Ovunque e comunque. Con pragmatismo e spregiudicatezza, senza più alcun timore — come incita il presidente “eterno” Xi Jinping — di «osare, di avere grandi ambizioni». Una strategia di lungo periodo che gradualmente sta modificando gli assetti geopolitici e geoeconomici mondiali.
L’obiettivo ormai esplicito è conquistare il primato globale entro trent’anni. Non si tratta di fantapolitica o fantaeconomia ma di immediato futuro. Come scrive lo studioso Willy Lang dell’Università di Hong Kong «nel prossimo decennio il Pil della Cina dovrebbe superare quello degli Stati Uniti e l’Esercito Popolare di Liberazione prevede di ridurre il divario con le Forze armate statunitensi, ma il traguardo è raggiungere lo stato di superpotenza entro il 2049 — anno dalla portata simbolica perchè centenario della nascita della Repubblica — raggiungendo gli Usa nella maggior parte degli indicatori usati per stimare la potenza di una nazione». (Limes n. 8/2018)
Il fatidico 2049, quindi, come coronamento ultimo di una paziente quanto irresistibile “lunga marcia” intrapresa un trentennio fa da Deng Xiaoping, il padre delle riforme post-maoiste. Nel tempo, riprendendo il mai dimenticato principio taoista dello “sforzo inverso” — ottenere molto facendo poco, in un logoramento strisciante e continuo degli avversari — la Cina ha consolidato le proprie posizioni nel Mar Meridionale, il cortile di casa, per poi creare — prima volta, con l’eccezione della parentesi quattrocentesca delle spedizioni dell’ammiraglio Zheng Hen, nella sua millenaria storia —, una grande Marina militare e mercantile, trasformandosi così in potenza marittima. Una meta ambiziosa e inedita ormai, come ricorda Edward Sing Yue Chan, «parte integrante del “sogno cinese” di rinnovamento nazionale. Si tratta di uno dei principali obiettivi del presidente fin dalla sua ascesa al potere, come ha ribadito nel 2017 in un discorso ai comandanti della Marina» (Limes n. 10/ 2020)
L’ascesa talassocratica e navalista cinese poggia sull’efficace rete d’alleanze e d’influenza estesa dall’Asia meridionale e all’Oceano Indiano. È la strategia della “collana di perle”, un lungo filo in cui Pechino ha inanellato lo Sri Lanka, la Birmania, il Bangladesh, le Maldive, il Pakistan e, dal 2017, Gibuti in Africa, prima base militare del Dragone fuori dal territorio nazionale. Ufficialmente la struttura (primo presidio militare permanente della Repubblica all’estero) è un punto d’appoggio per navi ed equipaggi impegnati in missioni antipirateria; ricordiamo che Pechino dal 2008 ad oggi ha movimentato contro i bucanieri somali più di 70 unità tra cacciatorpediniere, fregate e rifornitrici e mantiene un task force navale permanente davanti Aden. In realtà la base risponde a logiche di più vasta portata. L’installazione ha una capacità d’accoglienza per diecimila effettivi e rappresenta una porta d’accesso sicura per il cuore del continente oltre che uno scudo efficace per gli innumerevoli interessi cinesi nella piccola repubblica.

Nel 2018, i cinesi, proprio in fronte alla loro base, hanno inaugurato un porto multifunzionale, il Doraleh Container Terminal, e un impianto petrolifero (ambedue gestiti dalla compagnia statale China Merchants Group); un anno più tardi è stato costituito il Djibouti Damerjog Industrial Development (DDID), una zona franca di 43 chilometri quadrati gestita esclusivamente da tre aziende cinesi (costo 3,5 miliardi di dollari). Sotto la regia cinese nel gennaio 2021 (virus o non virus…), Gibuti ha chiuso l’accordo tra Air Djibouti, Ethiopian Airlines e l’autorità portuale nazionale (DPFZA) per la costruzione di un nuovo aeroporto, il futuro hub africano delle merci cinesi (scaricate, ovviamente, da navi cinesi allo scalo cinese di Doraleh).
Posizioni, traffici e flussi energetici che Pechino si garantisce rovesciando una valanga di soldi sulla piccola repubblica: i cinesi ormai detengono il 77 per cento del debito nazionale con cui programmano e ritmano il piano di sviluppo Vision 2035, il futuro di questo frammento del Corno d’Africa. L’obiettivo, come informa un documento di Bank of China, «è trasformare il Paese, da hub logistico regionale in un hub finanziario e in un crocevia commerciale globale». Insomma, una nuova Dubai in versione gialla.
L’investimento gibutino è sinergico con l’enclave industriale free tax nella zona del Canale di Suez — la China Egypt Suez Economic and Trade Zone —, e con la gestione di Cosco (China Ocean Shipping Co., terza compagnia di navigazione al mondo dopo Maersk e Msc) della Suez Canal Container Terminal, una piattaforma tutta cinese. Una scelta mirata: dal 2001 ad oggi i volumi delle merci che attraversano il Canale fanno del Mediterraneo lo sbocco principale del 19 per cento del traffico globale; il 56% delle merci che utilizzano l’idrovia raggiunge il cuore d’Europa. I conti sono presto fatti.
Suez e Gibuti sono due tasselli centrali di un disegno grandioso. Spieghiamo. Gli scali marittimi sono l’obiettivo prioritario di Pechino: secondo uno studio del Centre for Strategic & International Studies sarebbero 46 i porti africani finanziati, progettati (e in fase di costruzione) o gestiti da enti cinesi. Un investimento mirato a garantire alle navi un trattamento prioritario a costi minori, assicurando ai trasportatori cinesi un vantaggio competitivo: far giungere, nel minor tempo possibile, volumi crescenti di merci nei mercati europei. Ecco allora i progetti di espansione del porto commerciale di Lamu, in Kenya (costo 500 milioni di dollari), e quelli per la realizzazione del porto di Bagamoyo, in Tanzania, con un investimento stimato in 11 miliardi di dollari e la compartecipazione di Tanzania, Cina e Oman: situato a soli 50 chilometri a nord di Dar es Salaam e operativo a partire dal 2022, Bagamoyo diventerà il più grande porto dell’Africa orientale
A sua volta la conquista soft dell’Africa s’intreccia con la BRI ovvero la Belt and Road Initiative, la “nuova via della seta”, una formidabile offensiva politico-commerciale che coinvolge al momento oltre 80 nazioni e si appresta con tutta la sua forza da investire il Mediterraneo — l’ex mare nostrum — l’Italia e l’intera Europa. Un progetto articolato, forte di investimenti massicci e una programmazione efficace con un obiettivo chiaro: le nostre economie, le nostre sovranità. Per Gian Micalessin la BRI altro non è che «un’incredibile matassa che entra nel Mediterraneo, penetra l’Europa e l’avvolge. È capace d’arricchirla ma anche di trasformarla in una nuova periferia dell’impero cinese. È lo scenario della guerra commerciale con cui Pechino punta ad impossessarsi dell’Europa, controllando rotte commerciali, porti e merci» (Il Giornale, 7.12, 2018). Uno scenario inquietante ma reale.
Il punto di partenza è il 2010 quando la Cosco rileva a prezzi di saldo il Pireo, il principale porto ellenico. L’Unione Europea e la Germania, troppo impegnate a vampirizzare la Grecia, se ne fregano e danno il consenso. La concessione ai cinesi di due moli era per 35 anni, e la Cosco avrebbe dovuto pagare in totale un miliardo di euro. Ma il valore economico dell’operazione doveva essere complessivamente di 4,3 miliardi tenendo conto degli accordi per la divisione degli utili e degli investimenti che l’impresa statale del Dragone si impegnava a fare. L’appetito vien mangiando e nel Cosco, nel 2016 ha rilevato il 51% dell’intera Autorità Portuale, prendendo così possesso sino al 2052 dell’intera struttura operando da allora sia da terminal operator ma pure concessionario, cliente e fornitore di se stesso. Il Pireo è così diventato il suo primo vero mattone europeo della BRI, un passaggio per l’espansione commerciale e industriale asiatica in Europa, con massicci investimenti nei terminal ma anche nella logistica, nelle riparazioni navali e nel turismo.

Risultato? Un ottimo affare come confermano i numeri: nel 2009 il Pireo movimentava meno di 700mila Teu (unità di misura per i contenitori da 20 piedi). Nel 2014 ne movimentava 3,6 milioni, nel 2019 è arrivato a 4,9 milioni. «Nel 2010», puntualizza Alessandro Panaro, direttore Osservatorio Traffici Marittimi di Srm Intesa Sanpaolo, «il Pireo non era affatto competitivo, Valencia faceva quattro volte i suoi contenitori, Tanger Med ne faceva già due milioni, Port Said tre e mezzo mentre il porto greco non arrivava a farne uno. Da quando è arrivato il colosso cinese è diventato il secondo porto del Mediterraneo e oggi muove più di cinque milioni di Teu». Ricordiamo che,secondo un report Srm, nel 2020 l’intero sistema portuale italiano ha mosso poco meno di 10,7 milioni…
Dopo il Pireo — ormai il perno della penetrazione gialla in Europa, da collegare via treno a Belgrado e Budapest — la Cosco ha acquisito partecipazioni importanti nel porto di Kumport (Turchia), Ashod (Israele), Tangeri (Marocco), Cherchell (Algeria) Valencia e Bilbao (Spagna), Zeebrugge (Belgio), Rotterdam (Olanda) rilevando il controllo del 10 per cento del movimento contaneir del Vecchio Continente mentre un altro colosso pubblico di Pechino, China Merchant, detiene invece una quota di minoranza a Marsiglia.
Ovviamente anche l’Italia settentrionale è nel mirino degli investitori cinesi. Genova, Savona-Vado Ligure e La Spezia hanno creato la Ligurian Port Alliance per attrarre il made in China e Cosco è azionista con il 49% della piattaforma di Vado, un terminal contaneir che presto sarà in grado di movimentare 900mila teu l’anno e accogliere le grandi navi da 20mila Teu. Ma la Cina puntava soprattutto a Trieste. Lo scalo giuliano, oltre agli ottimi fondali, gode di extraterritorialità dogale, ha una piattaforma logistica nuova di zecca ed è collegato via treno all’Europa centrale e orientale. In cambio delle quote di maggioranza, i cinesi si erano detti pronti ad investire sulla città di San Giusto oltre un miliardo di euro. Un’offerta che, come ricorda Luccio Caracciolo (Limes n.10/ 2020), il governo Conte 1 ha inizialmente accettato incappando nella solita figuraccia: «la tragicomica vicenda del memorandum sulle vie della seta firmato a piè di lista senza intendere i sottotesti».
Alla fine è intervenuta pesantemente Washington — per nulla entusiasta di una presenza ostile nei pressi delle basi USA di Aviano e Vicenza — e ha imposto al mesto ”Giuseppi” (e ai suoi alleati) una ritirata immediata quanto imbarazzante: in meno di sei mesi le posizioni si sono capovolte e al posto dei mandarini sono subentrati i terminalisti di Amburgo. Intanto, mentre a Trieste si parla tedesco, a Bruxelles finalmente qualcuno sembra essersi svegliato. Poche settimane fa la Commissaria all’Antitrust Margrethe Vestager ha presentato uno “scudo” comunitario per difendere le aziende europee dalle scalate di attori stranieri sussidiati dagli Stati di appartenenza e ottenere la sua approvazione. Il segnale a Pechino è chiaro: le società che ricevono oltre 50 milioni di euro di sovvenzioni estere e cercano di rilevare attività in Ue per oltre 500 milioni di euro o partecipare a contratti d’appalto da almeno 250 milioni di euro dovranno notificare l’operazione a Bruxelles e ottenere la sua approvazione.

«Quando apri la tua casa agli ospiti, ti aspetti che rispettino le regole della casa. Questo deve valere anche per il mercato interno», ha sottolineato la Vestager. Aspettiamo ora che la legge che venga approvata da Consiglio e Parlamento Ue. Prima che sia troppo tardi.